Disintossicazione da psicofarmaci

benzodiazepine da una vita

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  1. l.anepeta
     
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    Quello che penso dei luminari della psichiatria (che diventano tali perché partecipano ai congressi, scrivono articoli su riviste specializzate, fanno ricerche sponsorizzate dalle industrie, conquistano una cattedra psichiatrica, ecc., senza che nessuno di essi abbia scritto negli ultimi trent'anni un libro che abbia un minimo valore) l’ho detto e scritto tante volte che non vedo il bisogno di ripetermi. Se i pazienti comunicassero senza saperlo con la voce di un computer istruito con le tabelline del DSM e con i protocolli terapeutici definiti come linee guida, verrebbero fuori le diagnosi e gli stessi trattamenti.
    Io non contesto l’uso sintomatico degli psicofarmaci, laddove esso serva a lenire la sofferenza nell’attesa che il soggetto sia in grado di comprenderne il significato in termini psicodinamici. Ne contesto l’uso come farmaci che curano o che prevengono una presunta malattia del cervello.
    Tale uso comporta una serie di inconvenienti.
    Crea, nel paziente e nei suoi familiari, aspettative di guarigione o di miglioramento che, nel corso degli anni, vanno regolarmente deluse. In tal caso, gli psichiatri affermano che senza cure le cose sarebbero andate peggio. L’affermazione è inverificabile, e comunque contrasta con le loro promesse originarie di riuscire a controllare la “malattia”.
    Il secondo inconveniente è che i pazienti sono inesorabilmente sollecitati a restringere la loro esperienza nell’ambito della valutazione delle fluttuazioni dei sintomi e degli effetti collaterali dei farmaci. Ciò significa che giungono ad attribuire ai farmaci tutto ciò che provano, e che, in parte, può essere espressivo della dinamica dei conflitti.
    Il terzo inconveniente è che, dopo anni e anni di cure, il sospetto che l’impostazione psichiatrica sia sbagliata, sopravviene per forza di cose e i pazienti (più di rado anche i familiari) cercano delle alternative. Il problema, in questo caso, è che solo per sormontare la dipendenza psicologica dai farmaci e decifrare quanto nei vissuti del paziente si può attribuire ad essi e quanto è riconducibile a conflitti psicodinamici occorrono (se tutto va bene) parecchi mesi.
    Quello che posso asserire con certezza è che le cure effettuate non hanno prodotto dipendenza chimica e danni cerebrali (mentre la cardiotossicità del Litio è accertata). Non c’è bisogno, dunque, di una disintossicazione.
    Per il resto, non so che dire.
    In termini generali, quello che gli psichiatri definiscono disturbo bipolare è, nella mia esperienza, una patologia dell’individuazione, nel senso che i soggetti che ne sono affetti hanno sempre grandi potenzialità, ma non riescono ad utilizzarle perché, come risulta chiaro nel corso degli episodi di eccitamento, imboccano senza saperlo vie che sono sbagliate: la sfida alle convenzioni sociali, la trasgressione, l’onnipotenza, ecc. Tali soluzioni, che sono rimedi peggiori del male, mirano a conseguire una libertà che, nelle fasi intervallari o negli episodi depressivi, è pregiudicata dalla soggezione nei confronti degli altri, dalla dipendenza, dal timore di entrare in conflitto, dalla vergogna, ecc.
    Sono questi i problemi di fondo da risolvere.
    E' insomma una libertà che difetta o è inibita a provocare periodicamente gli episodi di eccitamento. Dato che questi creano di solito situazioni incresciose sotto il profilo sociale, l'obiettivo degli psichiatri è rivolto insistentemente a tenerli sotto controllo. Alcuni giungono anche ad affermare che la condizione di base di un soggetto affetto da DB è una lieve depressione. Lavorano insomma in senso contrario a quello che occorrerebbe.
    Luigi Anepeta
     
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29 replies since 8/5/2008, 12:01   39717 views
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