Disintossicazione da psicofarmaci

benzodiazepine da una vita

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  1. tandream
     
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    Non so se sia questo il luogo giusto, ma era da un po' di tempo che non rientravo nel forum.
    Vorrei porvi, e non solo al dott. Anepeta, un qualcosa che mi preoccupa (e anzi direi mi ha preoccupato un'intera vita), la mia dipendenza dagli ansiolitici.
    Il problema è di lunga durata, dopo un periodo triste della mia vita, parlo ormai di 5-6 anni fa, ero arrivato a prendere anche intere scatole al giorno di lorazepam (Tavor) da 2,5 mg. Dopo quel periodo, definiamolo "triste" mi disintossicai in una clinica ma non del tutto, fino a scendere a 3 mg al giorno suddivisi in tre dosi separate, praticamente potevo anche eliminare. Sta di fatto che dopo qualche tempo, molti mesi, forse un un anno due, ho ricominciato pian piano a riprenderne di più, sotto indicazione medica mi fu prescritto il clonazepam (Rivotril) per eliminare il Tavor avendo un'emivita molto più lunga rispetto a quest'ultimo. Adesso sono in cura da una psicoterapeuta proprio per eliminare i farmaci, ma purtroppo noto con disappunto che mio malgrado il dosaggio del Tavor sta tornando elevato e noto che forse si è sviluppata una certa dipendenza (non credo importante) verso il clonazepam e inoltre c'è un'elevata tolleranza ai farmaci che forse è la cosa che più mi spaventa.
    Il tutto si è accentuato dopo aver conosciuto una ragazza ed essermene innamorato, un amore contraccambiato tra l'altro ma con un sacco di problematiche tra cui la prima è la distanza. Credo di avere qualche forma di ossessione nei suoi confronti e che in qualche modo sia diventato "dipendente" per certi livelli nei suoi confronti e questo mi
    porti ad essere "ansioso" più del solito, ansioso e tra virgolette "ossessionato" dai problemi che circondano questa relazione e la persona stessa.
    Mi chiedo poi se non sia il caso di tornare in una qualche clinica, oppure continuare un percorso terapeutico riesca a ridimensionare questa che sento essersi trasformata in una sorta di angoscia piuttosto che un voler bene davvero, almeno a tratti. Insomma, dopo questo "rapporto" sembrano essere aumentate entrambe le dipendenze: la prima dal farmaco e la seconda per una persona che amo.
    Sto cercando di spronarmi in tutti i modi e di controllare al meglio il farmaco, ma ho paura che potrei cadere ad abusarne, è il mio terrore, e oltre a questo c'è anche il terrore di un eventuale futuro in cui per forza di cose sento che dovrò eliminare il farmaco e mi chiedo quanto e come possa aver influito tutti questi anni sulla mia mente, e l'eventuale sofferenza che dovrò accettare per l'astinenza.
    Spero di non aver sbagliato a scrivere qui, nel caso confido nell'aiuto dei moderatori. Un saluto.
     
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  2. lanepeta
     
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    Il problema della dipendenza dagli psicofarmaci è troppo complesso per essere affrontato qui. Posso dire solo due cose.
    La prima è che, a differenza delle droghe, la dipendenza psichica è di gran lunga maggiore rispetto a quella chimica, posto che la disassuefazione avvenga con il metodo dello scalaggio graduale. La dipendenza psichica fa capo a motivazioni soggettive, consce e inconsce, che possono essere affrontate solo sul piano psicoterapeutico. Un fattore comune a tutte le dipendenze da psicofarmaci è la fobia del mondo interiore, vale a dire la convinzione soggettiva che in esso si dia qualcosa di incomprensibile, ingovernabile e incontrollabile. E’ superfluo aggiungere che si tratta di una convinzione errata. Ciò che affiora dall’inconscio sotto forma di disturbi (ansia, depressione, ossessione, ecc.) è in genere una contestazione delle strategie che il soggetto adotta per risolvere i suoi problemi.
    La seconda cosa è che, per ogni psicofarmaco, si dà una soglia terapeutica (naturalmente sintomatica) sormontata la quale la sostanza chimica non può agire, perché trova i recettori occupati, e viene semplicemente eliminata. Se il soggetto ricava vantaggio da un dosaggio superiore a quello terapeutico, si tratta di un effetto placebo, che va ricondotto alla fobia cui facevo cenno.
    Luigi Anepeta
     
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  3. tandream
     
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    Infatti, la cosa "positiva", se vogliamo è che se ne "abuso" non sento di stare meglio, ma anzi, di stare peggio e tendo sempre a tornare ad una dose che mi è stata prescritta anni fa. Quindi probabilmente il problema è di tipo esclusivamente psicologico. Vorrei scrivere di più magari quando avrò più tempo. Sta di fatto che "l'ansia" non si placa se prendo più farmaci, anzi, tende ad aumentare, probabilmente per un forte senso di colpa. Credo di capire che il problema sia "reale", non fatto di mere connessioni neuronali. E' principalmente adesso una dipendenza psicologica.
    Grazie.
     
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    CITAZIONE
    Un fattore comune a tutte le dipendenze da psicofarmaci è la fobia del mondo interiore, vale a dire la convinzione soggettiva che in esso si dia qualcosa di incomprensibile, ingovernabile e incontrollabile.

    Quanto è vero!!!!
    Ma spero e credo che il cammino non sia poi così impossibile.
     
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  5. tandream
     
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    E' azzardato in questa sede ipotizzare che l'assunzione di anti-depressivi possa aiutarmi a scalare progressivamente gli ansiolitici? Se è una domanda troppo da "diagnosi" chiedo venia, sta di fatto che il problema principale purtroppo non stia negli psicofarmaci, ma nel rapporto molto complesso che si è instaurato con la ragazza di cui sopra che purtroppo mi crea scompensi emotivi, chiamiamoli così...

    In che modo un farmaco come un ansiolitico (non visto come "droga") può influenzare il "comportamento" di un timido o introverso secondo voi? Mentre un estroverso magari a certe dosi dormirebbe, un introverso al contrario si troverebbe a sentirsi a più agio con gli altri? O sarebbe solo un "agio" apparente? Come dire: "Prendo il Tavor per dimenticare che sono timido", come fa l'alcolista per dimenticare che ha bevuto ancora la sera prima.
     
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  6. star***
     
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    Ciao...sicuro, in questo il dottor Anepeta ti può rispondere meglio di me. Ma secondo la mia esperienza personale l'unica cosa che mi ha dato sollievo e capacità di riprendermi in mano la mia vita è stata la forza di volontà e le persone che mi hanno seguito in questo cammino, e il mio incontro con il dottor Anepeta. In bocca al lupo
    Ciao Ciaoo
     
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  7. lanepeta
     
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    Gli psicofarmaci hanno un potere molto più limitato di quanto dicono gli psichiatri. essi hanno solo effetti sintomatici, non curativi. In altri termini. incidono solo sull’intensità di alcune emozioni (paura, rabbia, senso di colpa) che sono le matrici inconsce dei sintomi o dei vissuti. Disattivando un po’ le matrici, funzionando dunque come un freno per quanto concerne l’ansia e i fenomeni ad essa correlati (ansiolitici e neurolettici) e come un acceleratore per quanto concerne la depressione e i fenomeni ad essa correlati (antidepressivi), essi possono allentare i sintomi o in alcuni casi anche farli regredire del tutto. Le emozioni in questione e i contenuti di pensiero che ad esse si associano rimangono però attivi a livello inconscio, dato che fanno parte del patrimonio psicologico personale.
    Il modo migliore per confrontarsi con i sintomi e i vissuti che oppongono resistenza ai farmaci o si allentano solo parzialmente (quindi gran parte dei sintomi e dei vissuti) è di assumerli come messaggi significativi che provengono dall’inconscio e attestano che le strategie adottate dal soggetto, consciamente o inconsapevolmente, per risolvere i suoi problemi, non funzionano.
    Si tratta di capire quali sono i problemi in questione, quali le soluzioni adottate che non funzionano e quali cambiamenti occorrono per sormontarli.
    Da anni penso che, se non si vuole mettere da parte il concetto di “malattia” (che corrisponde ad uno stato soggettivo di sofferenza), esso va riferito piuttosto alla coscienza che non all’inconscio.
    La dipendenza “patologica”, in tutte le sue espressioni, è riconducibile ad un progetto latente di autosufficienza, vale a dire di onnipotenza. Se non si arriva a capire e soprattutto a sentire di nutrire nell'intimo questo progetto, e che esso, nonché la soluzione, è il problema da risolvere, non c’è molto da fare, perché l’inconscio continua a "imporre" all’individuo di riconoscere il suo essere bisognoso.
    Data la nostra condizione esistenziale, possiamo solo scegliere tra una dipendenza passiva e e una dipendenza attiva, vale a dire un’organizzazione di vita che ci consenta di sentire di essere noi stessi artefici delle risposte che l’ambiente fornisce ai nostri bisogni.
    In uno dei rari accenni alla dimensione psicologica, Marx ha scritto: "...se supponi l'uomo come uomo e il suo rapporto col mondo come rapporto umano, tu puoi scambiare amore solo contro amore, fiducia solo contro fiducia etc. Se vuoi godere dell'arte, devi essere un uomo colto in fatto di arte; se vuoi esercitare un'influenza su altri uomini, devi essere un uomo attivo realmente stimolante e trascinante altri uomini. Ogni tuo rapporto con gli uomini - e con la natura - dev'essere un'espressione determinata, corrispondente all'oggetto da te voluto, della tua reale vita individuale" (MEF, pag. 256).
    Luigi Anepeta


     
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  8. tandream
     
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    Dipendenza attiva. Questa porta naturalmente anche a divenire "indipendenti" o sbaglio?

    Sta di fatto che il caldo improvviso ed eccessivo di questi due ultimi giorni hanno ampiamente aumentato il mio stress fino a ché sono scoppiato.

    E non c'è tranquillante che tenga. Le temperature e le condizioni climatiche possono davvero alterare gli stati d'animo fino a condurre a depressione o rabbia (che poi forse sono sinonimi)?

    Sta di fatto che per il mio problema credo dovrei rivolgermi a qualcuno, oltre che a me stesso naturalmente, ma a chi? Mi sento lasciato in balia di me stesso dopo tutti questi anni. Un trattamento in un Sert o altra struttura simile potrebbe essere un 'idea? Semmai è davvero così grave la mia dipendenza. E' questo che non so valutare con precisione.
     
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  9. lanepeta
     
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    Le variazioni climatiche di sicuro hanno un impatto psicosomatico in quanto impegnano l’organismo a cercare nuovi equilibri adattivi. Si danno differenze nel potere adattivo tra diversi individui, ma non molto rilevanti sul piano fisiologico perché l’organismo umano è stato lungamente sperimentato.
    Le fluttuazioni dello stato d’animo e dell’umore che sopravvengono in rapporto ai cambiamenti climatici fanno di solito riferimento al modo in cui essi sono vissuti e interpretati soggettivamente, quasi sempre inconsciamente. Il nodo, a questo riguardo, è che c’è in ciascuno di noi una sorta di confusione/identificazione tra mondo interno e mondo esterno.
    I nessi soggettivi tra i due mondi sono tali e tanti che occorrerebbe scrivere un lungo articolo. Mi limito ad un solo aspetto, tra i più significativi. Coloro che hanno un elevato bisogno di controllo sul loro mondo interiore, o perché pervaso da emozioni troppo turbolente o semplicemente perché incomprensibile nelle sue fluttuazioni, di solito risentono profondamente dei “capricci” dei fenomeni atmosferici perché leggono in essi l’incontrollabilità e l’imprevedibilità del loro mondo interiore.
    Sperimentano, insomma, in rapporto al clima la frustrazione della loro esigenza di controllo sulla loro vita emozionale.
    Il clima è davvero incontrollabile, tanto più che gli esseri umani hanno deciso di farlo impazzire sovraccaricando l’atmosfera dei loro rifiuti.
    Il mondo interno non è mai incontrollabile, poiché fluttua in nome di dinamiche che possono essere comprese ed elaborate. Il controllo cui si può pervenire è, però, comunque relativo. E’ quello del timoniere che riesce a mantenere la sua rotta anche se i venti e le correnti fanno ciò che vogliono.
    Le difficoltà a volte derivano da un’esigenza di controllo fuori misura che, soggettivamente, è giustificata dall’ampiezza delle fluttuazioni, ma in realtà ne è la causa. L’ipercontrollo significa che un soggetto non vorrebbe avere nulla a che fare con alcuni aspetti significativi del suo modo di essere, della sua storia personale e del suo mondo interiore. A noi è concesso metabolizzare i contenuti psichici, non rimuoverli o tentare di estirparli.
    Il ricorso alla “disintossicazione” può essere transitoriamente utile. I problemi di dipendenza “patologica” (da persone, farmaci, droghe o non sostanze) si possono risolvere solo sul piano psicoterapeutico.
    Luigi Anepeta
     
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  10. tandream
     
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    CITAZIONE (star*** @ 13/5/2008, 09:03)
    CITAZIONE
    Un fattore comune a tutte le dipendenze da psicofarmaci è la fobia del mondo interiore, vale a dire la convinzione soggettiva che in esso si dia qualcosa di incomprensibile, ingovernabile e incontrollabile.

    Quanto è vero!!!!
    Ma spero e credo che il cammino non sia poi così impossibile.

    La mia fobia risiede nel "cuore" appunto. Ho paura di perdere il "controllo" nel caso in cui dovrei essere senza le mie pasticche e proprio per questo me le porto sempre dietro, ovunque, nel taschino degli jeans. O paura che che il mio cuore possa iniziare a battere all'impazzata, di avere troppa ansia, o di andare nel panico (nonostante non abbia più sofferto di attacchi di panico con o senza i farmaci, resta la "paura"), di perdere il controllo dei miei pensieri. Il fatto paradossale è che poi credo che siano proprio i farmaci a farmi perdere il controllo dei pensieri.
     
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  11. imperia69
     
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    CITAZIONE
    Coloro che hanno un elevato bisogno di controllo sul loro mondo interiore, o perché pervaso da emozioni troppo turbolente o semplicemente perché incomprensibile nelle sue fluttuazioni, di solito risentono profondamente dei “capricci” dei fenomeni atmosferici perché leggono in essi l’incontrollabilità e l’imprevedibilità del loro mondo interiore. Sperimentano, insomma, in rapporto al clima la frustrazione della loro esigenza di controllo sulla loro vita emozionale.

    Questo vale anche per coloro che si definiscono metereopatici?
    Quanto ci è di fisiologico nel fatto che alcune condizioni (nuvolosità, umidità, pioggie...) hanno effetto sul corpo, traducendosi in mal di testa, dolori articolari etc e quanto dipende da questo nesso soggettivo mondo interiore-mondo esterno?
     
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  12. peaceseeker
     
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    Egr. Dott. Anepeta,
    nato nel 1969, sono stato dignosticato con disturbo bipolare dell'affettività nel 91, da allora in cura da luminari sotto indicazione famiglia.Fino a 03-2003 con 900 mg di Litio in concomitanza con 400 Carbamazepina al diè, per 60 per cento del tempo anche sereupin 40 mg al dì sospeso di tanto in tanto. In seguito ad un grave episodio di disturbo del seno atriale cardiaco con impianto di peacemaker, il cardiologo mi sospende improvvisamente tutta la terapia: non ho parole per descrivere i gravi sintomi di dipendenza che ho dovuto sostenere. Anno 2005 riprendo, dopo una cura progressiva, regolarmente i segg. psicofarmaci: 900 mg Depakin Chrono 900 al dì con Sereupin pressochè stessi quantitativi ed assunzione nel tempo come prima detto. Ora dopo lunghe sofferenze di ogni tipo psicofisiche, grandi malesseri...attualmente, dal marzo 2010 regredendo molto lentamente ho ridotto a fino ad assumere soltanto circa 600 mg al gg di depakin. Ovvio che mi sento peggio di un drogato a volte, nn sento più emozioni, zero libido e mi rendo conto di non riuscire più assolutamente a memorizzare e concentrarmi: come se il mio cervello fosse irreversibilmente danneggiato o funzionasse su tali prestazioni allo 0,5 per cento, può essere? Sono ora costretto a ridurre gradualmente fino a dismissione come da patto terpeutico con il mio attuale psichiatra...le ragioni sono in primis la mia oramai intolleranza ai farmaci sia dal punto di vista fisico cardiologico che psichico. Le condizioni in cui verso e mi sento, mi portano a sentirmi in una dimensione come se avessi subito una lobotomia cerebrale chimica...incapace di provare emozioni, stimoli, privato delle funzioni cerebrali. Sottolineo che non ho sbalzi di umore ovviamente i farmaci possono avermi sottodimensionato le mie normali funzioni. E' possibile uscire da questo tunnel oscuro ed insormontabile recuperando il mio io di 15 anni fa? Ci sono casi simili al mio documentatati anche se tutto è così soggettivo e legato al caso umano. Penso che il mio caso sia peggiore di una dismissione da eroina. Aggiungo per terminare che ho sentito anche la clinica di sintossicazione Narconon, la quale non si prende la responsabilità nemmeno di accogliermi ed intentare una cura. Esistono centri di cura altamente specializzati che possano aiutarmi dove lei mi potrebbe indirizzare? Ho tentato finora invano anche di mettermi direttamente in contatto telefonico con lei provando a tutti i riferimenti desunti da internet, la immagino molto impegnato. Grazie per ora la saluto molto umilmente. Cordiali saluti.

    Edited by peaceseeker - 28/5/2010, 00:43
     
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  13. starsan
     
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    sono costretto a prendere psicofarmaci TRANQUIRIT SEROQUEL come disintossicarmi essendo consapevole che questi psicofarmaci ,alterando la mente,le considero droghe?
     
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  14. tandream
     
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    Nessuno è costretto a prenderli. Il Tranquirit si toglie piano scalandolo lentamente come tutte le benzodiazepine, il Seroquel è un tranquillante "maggiore" che non causa forme di dipendenza (almeno in genere). Dal punto di vista chimico sono droghe vere e proprie poiché agiscono comunque direttamente sul sistema nervoso centrale ma non per questo bisogna considerarle altrettanto nocive o sentirsi dei tossicomani. Vanno presi quando il disagio è eccessivo ma possono venire dismesse abbastanza facilmente magari con l'ausilio di una buona psicoterapia. Se non c'è un abuso il termine disintossicazione non è forse il più esatto. Spero ti risponda anche il Dr. Anepeta.
     
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  15. l.anepeta
     
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    Quello che penso dei luminari della psichiatria (che diventano tali perché partecipano ai congressi, scrivono articoli su riviste specializzate, fanno ricerche sponsorizzate dalle industrie, conquistano una cattedra psichiatrica, ecc., senza che nessuno di essi abbia scritto negli ultimi trent'anni un libro che abbia un minimo valore) l’ho detto e scritto tante volte che non vedo il bisogno di ripetermi. Se i pazienti comunicassero senza saperlo con la voce di un computer istruito con le tabelline del DSM e con i protocolli terapeutici definiti come linee guida, verrebbero fuori le diagnosi e gli stessi trattamenti.
    Io non contesto l’uso sintomatico degli psicofarmaci, laddove esso serva a lenire la sofferenza nell’attesa che il soggetto sia in grado di comprenderne il significato in termini psicodinamici. Ne contesto l’uso come farmaci che curano o che prevengono una presunta malattia del cervello.
    Tale uso comporta una serie di inconvenienti.
    Crea, nel paziente e nei suoi familiari, aspettative di guarigione o di miglioramento che, nel corso degli anni, vanno regolarmente deluse. In tal caso, gli psichiatri affermano che senza cure le cose sarebbero andate peggio. L’affermazione è inverificabile, e comunque contrasta con le loro promesse originarie di riuscire a controllare la “malattia”.
    Il secondo inconveniente è che i pazienti sono inesorabilmente sollecitati a restringere la loro esperienza nell’ambito della valutazione delle fluttuazioni dei sintomi e degli effetti collaterali dei farmaci. Ciò significa che giungono ad attribuire ai farmaci tutto ciò che provano, e che, in parte, può essere espressivo della dinamica dei conflitti.
    Il terzo inconveniente è che, dopo anni e anni di cure, il sospetto che l’impostazione psichiatrica sia sbagliata, sopravviene per forza di cose e i pazienti (più di rado anche i familiari) cercano delle alternative. Il problema, in questo caso, è che solo per sormontare la dipendenza psicologica dai farmaci e decifrare quanto nei vissuti del paziente si può attribuire ad essi e quanto è riconducibile a conflitti psicodinamici occorrono (se tutto va bene) parecchi mesi.
    Quello che posso asserire con certezza è che le cure effettuate non hanno prodotto dipendenza chimica e danni cerebrali (mentre la cardiotossicità del Litio è accertata). Non c’è bisogno, dunque, di una disintossicazione.
    Per il resto, non so che dire.
    In termini generali, quello che gli psichiatri definiscono disturbo bipolare è, nella mia esperienza, una patologia dell’individuazione, nel senso che i soggetti che ne sono affetti hanno sempre grandi potenzialità, ma non riescono ad utilizzarle perché, come risulta chiaro nel corso degli episodi di eccitamento, imboccano senza saperlo vie che sono sbagliate: la sfida alle convenzioni sociali, la trasgressione, l’onnipotenza, ecc. Tali soluzioni, che sono rimedi peggiori del male, mirano a conseguire una libertà che, nelle fasi intervallari o negli episodi depressivi, è pregiudicata dalla soggezione nei confronti degli altri, dalla dipendenza, dal timore di entrare in conflitto, dalla vergogna, ecc.
    Sono questi i problemi di fondo da risolvere.
    E' insomma una libertà che difetta o è inibita a provocare periodicamente gli episodi di eccitamento. Dato che questi creano di solito situazioni incresciose sotto il profilo sociale, l'obiettivo degli psichiatri è rivolto insistentemente a tenerli sotto controllo. Alcuni giungono anche ad affermare che la condizione di base di un soggetto affetto da DB è una lieve depressione. Lavorano insomma in senso contrario a quello che occorrerebbe.
    Luigi Anepeta
     
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29 replies since 8/5/2008, 12:01   39716 views
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