Introversione e abbigliamento

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  1. maria rossi
     
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    (sarebbe interessante considerare) "[...] la moda nella nostra epoca, come sistema entro cui si producono ruoli, gerarchie sociali, modelli dell’immaginario, figure del corpo. In questo senso, la teoria di moda è teoria della cultura, espressione che riprende in parte la moderna filosofia della cultura, ma che ne rielabora i termini alla luce della tradizione degli studi culturali e di genere, del post-strutturalismo e del post-colonialismo.

    L’uso dell’espressione Fashion theory qualifica invece un approccio teorico trasversale che, anteriormente a qualunque saper fare professionale, costruisce condizioni di possibilità e filtri teorici selezionando entro le scienze umane e sociali (comprese letteratura, filosofia e discipline artistiche) il sistema moda inteso come una speciale dimensione della cultura materiale, della storia del corpo, della teoria del sensibile. Fashion Theory è anche il titolo di una rivista internazionale diretta da Valerie Steele pubblicata presso Berg (Oxford) trimestralmente dal 1997, che assume programmaticamente questa prospettiva.

    La teoria di moda ha degli antecedenti e dei fondamenti che possono essere individuati in alcune basilari analisi sociologiche del primo Novecento, tra cui spicca, per spessore e lungimiranza, quella di Georg Simmel; nella elaborazione filosofica di Walter Benjamin e in particolare nei suoi appunti sulla Parigi del xix secolo; nello strutturalismo linguistico che concepisce l’abbigliamento e la moda come un sistema semiologico dal funzionamento in parte omologo a quello del linguaggio.

    Nel saggio di Georg Simmel sulla moda del 1895, questa viene definita come un sistema di coesione sociale che permette di conciliare dialetticamente la chiusura dell’individuo entro un gruppo e la sua indipendenza relativa nel territorio dello spirito. La moda, secondo Simmel, è ritmata dai motivi della imitazione e della distinzione, che una cerchia sociale trasmette in maniera verticale alla comunità. A questi motivi si accompagna l’elemento del fascino “stimolante e piccante” che la moda veicola attraverso quello che Simmel definisce come il “contrasto fra la sua diffusione ampia e onnicomprensiva e la sua rapida, fondamentale caducità” e come il “diritto all’infedeltà nei suoi confronti” (Simmel 1895, p. 44).

    L’analisi simmeliana fonda implicitamente la definizione della moda come un sistema di cui è possibile parlare solo nella modernità, e in particolare nella modernità matura della società di massa, in cui la produzione delle merci è simultaneamente produzione di segni e di significati sociali riproducibili serialmente. Il meccanismo di diffusione è in questa fase classica della moda quello detto trickle-down, della goccia che cade dall’alto verso il basso (dalle classi sociali agiate alle masse) e che si estende poi orizzontalmente nel meccanismo della imitazione, per venire però subito rimpiazzato, in un nuovo ciclo, da quello della distinzione.

    Nello stesso periodo di Simmel, Thorstein Veblen nella sua The Theory of the Leisure Class (1899) include le spese per l’abbigliamento nella sfera del consumo vistoso dell’alta borghesia, mentre Sombart (1913) considera come le spese (soprattutto femminili) per il lusso, di cui abbigliamento e cocotteries costituiscono una voce significativa, siano state funzionali al capitalismo sin dalla fase della accumulazione originaria.

    Come apparato inerente la riproducibilità seriale della merce, la moda viene icasticamente denominata da Benjamin nel Passagenwerk il “sex appeal dell’inorganico” (Benjamin 1982, p. 124). La moda rappresenta per Benjamin il trionfo della forma merce, in cui il corpo è reso cadavere, feticcio. In modo esemplare, nella moda si invertono marxianamente e si duplicano i rapporti tra vivente e inorganico: il corpo (femminile) mostra il fascino di una natura devitalizzata, estraniata, e resta come involucro, parure, supporto cadaverico dell’abito. Lo scenario entro il quale Benjamin costruisce questa visione spettrale è quello della città moderna, prototipicamente raffigurata dalla Parigi ottocentesca dei passages e dei flâneurs, della esibizione della merce nella grandi esposizioni, della architettura onirica, città in cui spicca la figura baudelairiana dell’artista mondano e quella dell’uomo della folla à la Poe.

    Un paragone tra la moda e il linguaggio è contenuto sia pure en passant in due brevissimi riferimenti del Cours de linguistique générale saussuriano: il primo nota come la moda, a differenza della lingua, non sia un sistema interamente arbitrario, dal momento che nella fissazione dell’abbigliamento che la moda determina, essa non si può allontanare oltre un certo limite dalle condizioni dettate dal corpo umano. Il secondo riguarda il meccanismo dell’imitazione, che concerne sia il fenomeno della moda che i cambiamenti fonetici della lingua, imitazione il cui punto di partenza resta, dice il Cours, un mistero in entrambi i casi.

    La semiologia linguistica della prima metà del Novecento è affascinata dalla moda e dai fenomeni di costume, proprio perché vi vede all’opera meccanismi di opposizione interna tra tratti, di variazioni obbligatorie e al tempo stesso immotivate, una sistematicità, insomma, che rammenta molto il funzionamento della lingua concepito sulla base della nozione di segno. Negli anni Trenta Nikolaj Trubeckoj, fondatore della fonologia strutturale e componente in quel tempo del Circolo linguistico di Praga, applica al rapporto tra costume e abbigliamento l’opposizione saussuriana tra langue e parole, concependo il primo come un fenomeno sociale (che include quindi la moda) analogo alla langue e il secondo come atto individuale simile alla parole. Trubeckoj parla di un rapporto di omologia tra sistema della lingua e sistema del vestito, tra fonologia e studio dei costumi, confermando così la relazione più generale che lo strutturalismo europeo tra anni Trenta e Cinquanta del Novecento realizza tra linguistica ed antropologia. In questa direzione, Pëtr Bogatyrëv, anch’egli con Trubeckoj (e Jakobson) tra gli esponenti di spicco del Circolo di Praga, elabora un’analisi del costume popolare della Slovacchia Morava, secondo uno schema funzionalista che individua nel costume popolare una gerarchia di funzioni, tra cui la pratica, l’estetica, la magica, la rituale (Bogatyrëv 1937).

    Nel 1931, il linguista e antropologo americano di origine lituana Edward Sapir scrive la voce Fashion della Encyclopaedia of the Social Sciences, nella quale stabilisce le differenze tra moda e gusto e tra moda e costume, nella misura in cui quest’ultimo è un tipo relativamente stabile di comportamento sociale, mentre la prima è esposta a un cambiamento incessante. Sarebbe da chiedersi se non sia probabilmente un caso che tanto Sapir quanto Trubeckoj pur in contesti culturali diversi, abbiano entrambi rivolto un’attenzione specifica sia alla moda sia alla nozione di fonema, cioè a quell’unità basilare della lingua che ne è tratto distintivo e costante, e su cui si fonda la riconoscibilità per opposizioni di un sistema linguistico. Imitazione e distinzione, ricordiamolo, sono proprio i motivi individuati nella moda da Simmel.

    Il Système de la Mode di Roland Barthes (1967) costituisce il testo in cui esemplarmente viene elaborato il passaggio a una teoria della moda come discorso sociale. In maniera radicale, in questo testo Barthes non si occupa della moda reale, bensì della moda descritta nella rivista: l’indumento è totalmente convertito in linguaggio e anche l’immagine non è che in funzione della sua trasposizione in parola. In questo senso, non solo, come Barthes sosteneva provocatoriamente verso la tradizione saussuriana, è la semiologia a far parte della linguistica e non viceversa, ma questa lingua, che “la scienza di tutti gli universi immaginati” (la linguistica, appunto) si impegna “con una seconda nascita” a elaborare in sistema, non è “la stessa dei linguisti” (p. xvi): la linguistica barthesiana rompe il canone. La lezione di Barthes, che va pertanto oltre la stessa semiologia, è che la moda non esiste se non attraverso gli apparati, le tecnologie, i sistemi comunicativi che ne costruiscono il senso. Nel Système di Barthes è il giornalismo specializzato a costituire il luogo della messa in discorso della moda, in cui si costruiscono sia l’oggetto moda sia la sua destinataria (la lettrice). Il contesto della postmodernità definisce chiaramente come tutta una serie di discorsi sociali, dal cinema, alla musica, ai nuovi media, alla pubblicità, siano i luoghi dove la moda vive come sistema sincretico, intertestuale, come rimando reticolare tra i segni del corpo rivestito e come costruzione e decostruzione costante dei soggetti che ne negoziano, ne interpretano, o ne ricevono il senso.

    È in questo senso che si inserisce a pieno l’analisi di Dick Hebdige (1979) della sottocultura. Hebdige muove dalle posizioni più classiche degli studi culturali inglesi per elaborare una definizione dello stile come forma di adesione estetica ed etica di gruppo nella società di massa a culture in processo, in divenire, gergali (l’influenza gramsciana è qui fondamentale) composte di tasselli che comprendono il modo di vestire, la musica, la letteratura, il cinema, le abitudini quotidiane. Un universo pop che si esprime negli street styles dai rocker ai punk, che Hebdige contrappone alla moda intesa come una delle “forme preminenti di discorso” (p. 116). Il punk, in modo speciale, ha rappresentato secondo lui una strategia di denaturalizzazione dello stile, una pratica simile al surrealismo che otteneva l’effetto di mostrare letture paradossali degli oggetti, per esempio la spilla di sicurezza conficcata nella pelle, o il colore innaturale dei capelli, evidenziando simultaneamente e criminosamente il carattere innaturale di qualunque discorso.

    La teoria di moda matura proprio sul ribaltamento, proveniente da ambiti disciplinari diversi, della nozione stessa di moda come sistema sociale istituzionale e upperclass. Il trickle-down si rovescia in bubble-up, come dimostrano in modo esemplare le storie di due indumenti simbolo del Novecento, quali i blue-jeans e la minigonna. La moda come mass moda (Calefato 1996) è concepita come il luogo dove si manifesta “una complessità di tensioni, di significati e di valori – non solo relativi alla dimensione vestimentaria” (p. 7). Questa complessità ha al suo centro il corpo e le modalità del suo essere al mondo, del suo rappresentarsi, del suo mascherarsi, travestirsi, misurarsi e confliggere con stereotipi e mitologie.

    Il corpo rivestito è il territorio fisico-culturale in cui si realizza la performance visibile e sensibile della nostra identità esteriore. In esso, testo-tessuto culturale composito, trovano modo di esprimersi tratti individuali e sociali che attingono a elementi quali il genere, il gusto, l’etnicità, la sessualità, il senso di appartenenza a un gruppo sociale o, viceversa, la trasgressione. Gli studi di moda sulla mascolinità (Breward 2000) o sulla differenza tra i generi costruita storicamente e culturalmente attraverso l’abito (Lurie 1981) hanno dimostrato quanto la storia del vestito sia stata anche “la storia del corpo, del modo in cui ce lo siamo costruito, immaginato, ripartito tra uomini e donne in base alle sue funzioni produttive e riproduttive, alla sua disciplina, alle gerarchie che gli sono scritte addosso, ai discorsi che ne hanno costruito le passioni e i sensi” (Calefato 2000, p. 118). La moda, o meglio le mode – al plurale – costituiscono i dispositivi che organizzano nel tempo e nello spazio i segni del corpo rivestito, quasi come ne forgiassero la lingua, e allo stesso tempo rappresentano le possibilità di mescolare i codici di riferimento costruendo ibridismi tra segni, analoghi proprio agli ibridismi linguistici e culturali entro cui si costruisce l’idea stessa di identità.

    Così, l’identità di genere attraverso la moda gioca tra quelle che sono le forme canoniche e stereotipate della rappresentazione del maschile e del femminile, da un lato, e le sfide all’ordine del discorso dominante che i segni del corpo veicolano, dall’altro. Le esperienze di cross-dressing e di denaturalizzazione anche caricata, come nella mascherata drag, di conformità prefissate tra sesso e genere, mostrano quanto lo “stile delle apparenze” (Kaiser 1992) possa costituire una strategia estetica e politica allo stesso tempo. Nel medesimo senso funzionano le complesse relazioni tra gli stili delle apparenze e le forme di resistenza e piacere in cui si esprimono identità subalterne: come scrive bell hooks, c’è una stretta relazione tra lo stile espresso nell’abbigliamento e la sovversione, cioè il modo in cui i dominati e gli sfruttati usano determinate mode per esprimere resistenza e/o conformismo (bell hooks 1990, p. 217).

    “Dal marciapiede (o dalla strada) alla passerella”: i luoghi della cultura quotidiana sono oggi quelli che determinano le mode prima ancora che la ricerca stilistica elabori in segno-merce di lusso il proprio artefatto. È una lezione che le multinazionali del casual hanno appreso, e a partire dalla quale hanno operato mistificazioni demagogiche, quando per esempio, almeno dalla fine degli anni Ottanta, hanno costruito valori e mitologie attingendo in modo parassita agli stili e ai gusti dei giovani afro delle metropoli occidentali.

    La moda è, come sostiene Gayatri Chakravorty Spivak anche la forma in cui si organizzano le narrative del dominio capitalistico transnazionale (Spivak 1999). Ma la moda è ambivalente: porta con sé racconti, istituisce spazi, produce miti, dà voce ai sensi ed è luogo di conflitto, proprio come il mondo globale contemporaneo quale scenario composito in cui i segni del vestire dialogano e si traducono. La strada è così il luogo fisico e metaforico in cui prendono vita stili, gusti e abitudini che coniugano le mode entro una sorta di gergalità diffusa e popolare. I mezzi di comunicazione, primo fra tutti il cinema quale grande deposito e motore dell’immaginario sociale, agisce in sinergia strettissima con la moda (Calefato 1999). Le nuove tecnologie comunicative modificano le definizioni stesse della corporeità nel territorio sociale (Fortunati, Katz, Riccini 2002). Nuove consapevolezze teoriche maturano così rispetto a ciò che significa percepire il rivestimento del corpo come un travestimento che permette di non aderire a stereotipi sociali o sessuali, di eccedere con consapevole ambiguità le regole del gioco, di realizzare performance che danno piacere."
     
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67 replies since 25/2/2009, 20:32   3104 views
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