Scuola di strada

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  1. star***
     
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    Il link non funziona. Ciao
     
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  2. maria rossi
     
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    per proseguire...

    L’arte di insegnare

    Carlo Bernardini


    Nessuno dubita che la trasmissione di conoscenze da una generazione alle successive sia la chiave di volta di ciò che oggi chiamiamo “civiltà”, intendendo con questa parola un insieme di acquisizioni di carattere culturale che comprende varie forme di conoscenza. Di questi tempi, si è fatto uso sempre più frequente dell'espressione “società della conoscenza” per evidenziare come il possesso di un vasto spettro di conoscenze sia considerato l'elemento distintivo dei rapporti umani e sociali degli individui che di quella società fanno parte. Proprio grazie a questo carattere fondante, la natura istituzionale dell'istruzione dei giovani segue come risposta naturale alle necessità di quel tipo di società.

    Se queste affermazioni sono in linea di massima condivisibili, la loro attuazione pratica si scontra con difficoltà che sono forse tra le più complesse della cultura umana. Per molti secoli, con impostazioni diverse e molto assortite, una pseudoscienza ha tentato di riflettere sui problemi dell'istruzione e dell'educazione in generale: la pedagogia. Ma oggi dobbiamo amaramente constatare che la pedagogia, pur densa di buone intenzioni, non ha mai risolto alcun problema della “didattica”, cioè della realizzazione di piani di istruzione graduali che nell'arco dei primi venti anni della vita degli individui diano loro, con modalità adatte allo sviluppo mentale graduale delle varie età, il reale possesso di una rappresentazione mentale operativa ed efficace del mondo contemporaneo. Si è spesso dato per scontato che la didattica fosse metodologicamente riconducibile a procedure standardizzate di “travaso” di nozioni da un recipiente già pieno (il docente più il manuale) a un recipiente vuoto ma sufficientemente capiente. (l'allievo). Ma è sbagliato pensare alla didattica - all'insegnamento in generale - come a una procedura con esiti verificabili sul breve termine. La didattica è in realtà un'arte, una disposizione intellettuale che si acquista per trial and error , provando e riprovando, in cui sia i docenti che i discenti hanno entrambi ruoli intellettuali attivi e non, come accade, attivi ma di routine i docenti e passivi i discenti. Perché l'apprendimento sia anche e soprattutto apprezzamento, esso deve essere godibile e fornire, a chi apprende, una sensazione di nuovo potere mentale acquisito con convinzione. Questo non può essere frutto di sforzo mnemonico inconsapevole del valore dei contenuti; l'arte di cui parlo deve perciò fornire il senso dell'evoluzione culturale partendo dalle rappresentazioni primitive e spontanee della natura e soluzione dei problemi di ogni tipo per arrivare al superamento di quel senso comune che scaturisce dai processi elementari dell'elaborazione della realtà.

    In parole povere, l'insegnamento della lingua attraverso l'evoluzione della letteratura deve fare percepire il valor concreto della proprietà del linguaggio, dalla semplice intelligibilità alla godibilità dei testi; l'insegnamento della storia deve misurare l'evoluzione sociale e le sue cause; l'insegnamento della filosofia deve mostrare che il controllo dell'autonomia del pensiero può fornire schemi interpretativi delle modalità del pensiero stesso che vanno al di là di mere razionalizzazioni; l'insegnamento delle scienze deve fornire le chiavi di lettura della realtà naturale che trascendono i limiti angusti delle percezioni; e così via. Un mio collega americano, della Northeastern University, Alan Cromer, purtroppo scomparso pochi anni fa, sostenne che i principali handicap all'evoluzione culturale sono stati, nell'antichità (ma non sembra che ne siamo ancora fuori) le monarchie assolute e le religioni monoteiste. I greci, che non ebbero a soffrire di questi gravi inconvenienti, svilupparono a un tempo la democrazia e le scienze moderne: la democrazia perché in luogo della volontà del monarca ebbero il dibattito assembleare che sviluppò i modi per argomentare una volontà comune; le scienze moderne perché in luogo della verità rivelata dalle scritture adottarono il ricorso all'esperienza e alla logica formale. Oggi, il fatto che la “voglia” di governi autoritari sia ancora accettata da fette consistenti di alcune popolazioni, così come lo è tutto l'apparato delle superstizioni, delle credenze popolari e del soprannaturale dà una misura inquietante della rappresentazione del mondo su cui si basa buona parte dell'umanità.

    L'arte di insegnare va dunque molto al di là delle aspettative che abbiamo riposto finora nella didattica tradizionale. Non posso certo dare ricette, tanto meno in un così breve tempo. Però, voglio indicare prima di tutto alcuni impedimenti da rimuovere e poi alcune cose concrete che, sinora, mi sembra siano state tenute in nessuna considerazione.

    1 - Gli impedimenti : di solito, gli insegnanti non appaiono come persone autonomamente pensanti, con preferenze politiche, filosofico-religiose ed estetiche. Questo è un male: un docente che rappresenta solo una “corporazione accademica” di cui garantisce il prodotto, rappresentato dal materiale didattico adottato davanti a individui ignari delle possibili alternative, appare prima o poi come un “funzionario” scolastico anziché come un maestro, un burocrate che assolve al compito di svolgere un programma ch lui stesso non “valuta”. Ai ragazzi non piace avere a che fare con un giudice freddo e impenetrabile che, come massime debolezze, si permetterà forse antipatie e simpatie più o meno spiegabili. Per guadagnarsi il rispetto degli allievi, bisogna caricare la didattica di qualità umane anche personali. Questo è esattamente ciò che la tradizione pedagogica dice, sbagliando, che non si deve fare. Vi garantisco che i migliori insegnanti che si ricordino sono quelli di cui erano visibili le qualità umane, peraltro diversissime: tra i fisici, Enrico Persico, Bruno Touschek, Gilberto Bernardini, Edoardo Amaldi, tutti forniti di una ampia cultura al di fuori della fisica; ma potrei ricordare alcuni professori del mio liceo leccese, ai confini dell'impero: Alfredo Mazzotta (italiano), Gennaro D'Elia (greco), Giuseppe Palamà (matematica). Tutti voi avrete certamente ricordi analoghi. Non potrei dire, forse, che ciò che avete veramente imparato scaturisce soprattutto dalla didattica memorabile legata a quei ricordi?

    2 - Le omissioni: quand'è che gli studenti parlano, a scuola? Quando sono interrogati. E che cosa dicono, quando parlano? Rispondono. Ma la modalità adulta più importante in una società evoluta consiste nel fare domande. Anzi, per non oscurare troppo il ruolo delle risposte, la modalità adulta più importante consiste nell'elaborare sia domande che risposte adeguate. La parola che si usa in entrambi i casi, nella versione interrogativa (perché?) o in quella affermativa (perché) è la chiave di volta del dialogo. “Perché un'astronave deve lasciare la Terra con una certa velocità minima per allontanarsi indefinitamente?”, “Perché per vincere l'attrazione gravitazionale arrivando all'infinito, sia pure con velocità zero, senza ricadere al suolo, devono avere una certa energia cinetica iniziale”. Ma questo è un esempio già elaborato: il problema dei viaggi spaziali è uno di quelli che si prestano per far domande. Le domande ben formulate denotano padronanza delle competenze minime necessarie per parlare del problema della gravitazione. Un buon docente caricherà l'argomento di fantasia, perché la rappresentazione mentale dei problemi sia godibile. Non è facile stimolare le domande; la nostra disponibilità spesso si protegge inconsciamente dal rischio di inadeguatezza disciplinare: un docente esita molto a dire “non lo so”, dimenticando che lui in genere ha gli strumenti per capire in un conveniente lasso di tempo.

    La “didattica da campo”, a differenza della “didattica da tavolino” non è né prescrittiva né esortativa. In quanto “arte”, è largamente frutto di improvvisazione e di intuizione. Io penso che un grosso difetto dei docenti sia della scuola che dell'università sia quello di “temere il giudizio dei colleghi”. Una volta mi capitò di proporre al consiglio del mio Istituto di attivare un servizio di assistenza alle lezioni mediante partecipazione volontaria ad alcune delle lezioni dei colleghi. Non lo avessi mai proposto! Fu considerato un affronto... Mi venne in mente quello che si dice dei capitani delle navi: “comandante dopo dio”. Forse, possiamo dirlo dei professori. Ma non c'è di che vantarsi.
     
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  3. imperia69
     
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    Non è del tutto in tema, forse, ma volevo segnalare anche questo:

    Geni dei numeri, distratti in aula
    Cosa fare se il figlio è troppo intelligente
    Alla Bocconi di Milano è nato il network Ulisse, una rete di protezione per i piccoli superdotati. Spesso etichettati come "iperattivi" si isolano spesso dagli altri. "Hanno una marcia in più rispetto agli altri, ma bisogna saperli riconoscere"
    di VERA SCHIAVAZZI

    MATTEO ha 6 anni e in prima si annoia, del resto lui sa già leggere e scrivere (ha imparato da solo sulle insegne dei negozi e i manifesti pubblicitari) e in classe "non sa cosa fare". Giulia ne ha 13 e comincia a collezionare brutti voti: non sta attenta, non fa le ricerche in gruppo, non partecipa alla vita della classe. E se fossero troppo intelligenti o, semplicemente, più intelligenti degli altri?

    E soprattutto in modo diverso? Oggi a Milano, all'Università Bocconi, si tiene a battesimo il network Ulisse, la rete "di protezione" per tutelare la diversità di questi bambini dalle diagnosi sbagliate (e dalle cure conseguenti, a volte anche farmacologiche). Spesso infatti questi piccoli vengono etichettati come "iperattivi" che disturbano compagni e professori. Il seminario servirà a raccontare storie come quella di Vincenzo Iozzo, oggi ventenne, il ragazzo plusdotato che cinque anni fa diventò famoso per aver cracckato l'iPhone, oggi consulente informatico deciso a restare in Italia: "Avere doti sopra la norma può essere un problema perché spesso si hanno interessi molto diversi da quelli degli altri, ma ho sempre risolto il problema frequentando due gruppi di amici: con quelli di lunga data, gli stessi che mi aiutavano a scuola perché ero sempre distratto, faccio le cose che sono normali per la mia età e con gli altri, i colleghi, mi confronto sul lavoro". Spesso, i talenti dei "plusdotati" sono specifici e difficili da riconoscere: è il caso della statistica, della matematica, della logica. "Si tratta di studenti che hanno una marcia in più o delle potenzialità che la scuola non riesce a tirar fuori, veri e propri talenti che andrebbero riconosciuti e gestiti come tali", spiega Maria Assunta Zanetti, docente di psicologia dello sviluppo e dell'educazione all'università di Pavia, che da anni lavora con gli insegnanti e gestisce da anni casi di disaffezione scolastica.

    Ma c'è anche chi gioca a scacchi da campione, chi scrive in versi e chi sa leggere la musica senza averla mai studiata, ed è proprio questa pluralità che rende difficile - per chi non ha imparato a farlo - "riconoscere" questi bambini. La loro diversità si manifesta precocemente, ma se non viene individuata può accompagnarli lungo tutta la carriera scolastica, spesso provocando difficoltà a loro e preoccupazione a genitori e insegnanti: per questo l'Aistap (www. aistap. org), l'associazione italiana di psicologi, educatori e famiglie che se ne occupa, propone corsi di formazione per chi lavora nelle scuole e criteri di base, gli stessi adottati in tutta Europa, per stabilire chi rientra in questa categoria. A differenza dei loro coetanei, i bambini "troppo intelligenti" non hanno bisogno di ripetizioni multiple, e una volta intuito un concetto "spengono" la loro attenzione e la dedicano a altro. Se sono fortunati, almeno un adulto intorno restituisce loro un messaggio di accettazione, apprezzamento e empatia. Altrimenti, la loro condizione assomiglia a quella di Gaspare, lo struggente ragazzino protagonista di "Una barca nel bosco" (il romanzo di Paola Mastrocola che nel 2004 vinse il Campiello): per lui, che vive in un'isola del Sud, arriva una professoressa capace di riconoscerne le doti, che convince i genitori a fargli frequentare un liceo torinese. Peccato che quando chiede di poter fare una versione in latino il professore gli risponde "forse più in là", mentre quando studia con passione Verlaine ottiene l'insufficienza in francese perché l'interrogazione è troppo facile.

    "Non chiediamo certo scuole differenziate come si usava un tempo per i bambini diversamente abili - spiega Anna Maria Roncoroni, psicologa, tra le fondatrici del nuovo network - Piuttosto, vogliamo offrire agli insegnanti e alle famiglie gli strumenti per capire, e dare quindi a questi ragazzini la possibilità, dentro e fuori le aule, di usare al meglio le proprie doti, e di non indirizzarle contro di sé o venire curati per malattie che non hanno come spesso accade".
    (04 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
     
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17 replies since 26/10/2010, 14:15   465 views
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