Elettroshock

un documento agghiacciante

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  1. davidthered
     
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    Allego di seguito un video che riporta la situazione terrificante in cui versa la psichiatria negli stati uniti, dove l'elettroshock (ECT) viene praticato diffusamente.

    Ricordiamoci che anche in Italia si pratica ancora l'elettroshock, so di sicuro che si pratica anche in una clinica romana dove è stata ricoverata la sorella di un mio amico, la sua compagna di stanza subiva regolarmente terapia elettroconvulsivante.

    il video parla più chiaro di mille parole

    https://www.youtube.com/watch?v=l1qm4CE7MAY

    agghiacciante

    se questo è un uomo...

    davide
     
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  2. davidthered
     
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    ho avuto notizie aggiornate dal dr.Anepeta sulla pratica dell'elettrochock in Italia: la terapia elettroconvulsivante è attualmente prevista dal protocollo psichiatrico ed applicata di routine in parecchie case di cura psichiatriche, l'elettrochock viene effettuato quando tutte le terapie psicofarmacologiche falliscono.

    Ricordiamoci che in Italia non esiste più il manicomio.........ma siamo proprio sicuri?
    Linko di nuovo il brevissimo documentario chock americano su questa pratica disumana e disumanizzante


    https://www.youtube.com/watch?v=l1qm4CE7MAY
     
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  3. Armisael
     
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    Eppure in alcuni casi di depressione farmacoimmune la TEC è l'unico trattamento efficace e risolutivo.

    Possibilissimo che sia un semplice effetto collaterale della devastazione generalizzata, ma non va sottovalutata la possibilità di utilizzarlo.
    Ovviamente deve essere una scelta consapevole, se invece viene imposto, continuo a trovarlo aberrante.

    Ah il video comunque si riferisce ad una realtà medica come quella americana che fortunatamente in Italia la possiamo concepire solo nei peggiori incubi, trattasi della solita "arma di distrazione di massa" utile a sollevare vespai di tanto in tanto, ma priva di qualsiasi obiettività.
     
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  4. maria rossi
     
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    Risposta "da manuale", futuro dottore...ma con quale facilitàsi considerano certe prassi terapeutiche come certe,assodate e "obiettive"?
    "trattamento efficace e risolutivo"...la persona non c'è più! ti credo che passa anche la depressione!!
    Oltre i protocolli e le etichette esiste altro, molto altro...l'essere umano, per esempio e il suo dolore. Verso il quale sarebbe bene provare prima di tutto un' empatia e un'attenzione umane, fra pari, (vedi anche simili,appunto) più che una prontezza nell'incasellare e rinchiudere storie e vissuti in casistiche e percentuali. E poi, ci vorrebbe, curiosità, tanta: per tutto quello che implica e comporta a livello di conoscenza, studio e approfondimento interdisciplinare l'avere a che fare con le persone, i loro vissuti, le loro storie. Possbile che gli studenti di psichiatria non debbano studiare approfonditamente anche storia della medicina, del pensiero scientifico, sociologia, antropologia culturale, storia, filosofia? strumenti indispensabili nell'approcciare un qualsiasi essere umano, tanto più se sofferente?...possibile che vengano formati (saccentemente ma parzialmente) ancora su un modello di scientificità obsoleto e fortemente rivisto e rivisitato già in campi molto più "semplici" che non quelli inerenti un sistema non lineare complesso come la mente umana!!?possibile che escano dal loro corso di laurea così "monchi e handiccappati" rispetto al funzionamento completo, generale del congegno umano con il compito di curarlo?in altre persone?
    "l'ettroshock? ma, guarda, quando i farmaci non funzionano, non ci rimane altro!" eh,certo, uno lo legge sul manuale, sulle pubblicazioni, i professori ti confermano che nella prassi clinica è così e tutto passa in cavalleria anche se i conti non tornano affatto, anche se umanamente può sembrare un'aberrazione e un sacco di domande restano insolute...(ci credo che non dormi, la notte. neanche io ci riuscirei!) Forse i "sintomi", quando non passano, dovrebbero indurre a mettere in discussione la diagnosi e la prassi medica di chi era chiamato a curarli, il rivedere il significato che si da alla parola cura, ai metodi interpretativi adottati prima di sottoporre una persona ad una scarica elettrica come i maiali nei mattatoi...ma questo richiede coraggio,anticonformismo, assenza di pregiudizio, capacità critica, umanità ed empatia tutte cose considerate poco "professionali", giusto?


    Lascio qui un articolo sulla depressione, tanto per lasciare un'interpretazione un pò meno semplicistica di quella generalmente in circolazione su questa "oscura malattia".

    La Depressione come malattia sociale, di Luigi Anepeta

    1.

    Prima o poi doveva accadere. Lo Stato di New York ha avviato un esperimento-pilota, affidato ad un ristretto numero di medici di base, che prevede di sottoporre i pazienti ad un test piuttosto semplice per valutare l'esistenza o meno di sintomi depressivi.

    Il test si articola su nove domande che riguardano le due settimane precedenti. Le domande sono queste:

    1) hai provato scarso interesse o piacere a fare le cose?

    2) Ti sei sentito giù, depresso o sconfortato?

    3) Ha avuto difficoltà a prendere sonno, hai sofferto di insonnia o dormito troppo?

    4) Ti sei sentito stanco e senza energie?

    5) Non avevi fame o ne avevi troppa?

    6) Ti sei sentito inappagato, deluso o abbandonato o hai provato un senso di fallimento?

    7) Hai avuto problemi di concentrazione tanto da non riuscire a leggere il giornale o a guardare la tv?

    8) Ti sei mosso o hai parlato lentamente e più persone te lo hanno fatto notare. O al contrario ti sentivi irrequieto e non riuscivi a star fermo?

    9) Hai avuto pensieri di morte o ti sei provocato dolore in qualche modo?

    A ogni domanda il paziente può rispondere: Mai (punteggio 0), Alcune volte (1), Più della metà dei giorni (2), Quasi ogni giorno (3). La somma dei punteggi alle nove domande può andare, ovviamente, da 0 a 27: 0 sta per assenza di depressione, 1-4 per depressione minima, 5-9 per depressione leggera, 10-14 per depressione moderata, 15-19 per depressione medio-grave, 20-27 per depressione grave.

    Non si tratta, ovviamente, di una diagnosi formale, che spetta solo agli psichiatri, bensì di uno screening, che, nei casi lievi, può comportare anche solo una prescrizione terapeutica da parte dei medici di base, e, nei casi gravi, prevede il consiglio di consultare uno psichiatra.

    Nel caso si rivelasse utile, l'esperimento-pilota dovrebbe servire ad inserire il test tra i controlli di routine dell'assistenza di base. A quale fine? Al fine di ridurre i costi sociali della depressione. Le ultime statistiche attestano infatti che il 16% degli americani, vale a dire 46 milioni di persone, in alcuni periodi della vita soffre di depressione. Questo costa al paese circa 44 miliardi di dollari l'anno in ore di lavoro perdute o disabilità, ovvero molto più di qualsiasi altra malattia, comprese quelle cardiache.

    Lo sponsor ufficiale dell'esperimento-pilota ñ Thomas R. Frieden, assessore alla Sanità della città ñ difende l'iniziativa in questi termini: "La depressione è una malattia di primo piano a New York, ma può essere curata. Dai nostri rilevamenti risulta che vi sono circa 400000 cittadini affetti da depressione, molti dei quali non hanno ricevuto una diagnosi accurata né una cura efficace."

    La difesa è stata dovuta alle numerose critiche avanzate da varie associazioni di tutela dei diritti dei pazienti. Alcune critiche si sono soffermate sul problema della violazione della privacy. Lo screening potrebbe etichettare a vita come malati mentali soggetti inconsapevoli del reale significato del test. Altre critiche hanno puntato sulla possibilità che l'uso degli psicofarmaci antidepressivi, già molto diffuso, aumenti ulteriormente con grande soddisfazione delle industrie farmaceutiche.

    In altri articoli, ho analizzato la strategia delle industrie che si avvale dell'alleanza con la neopsichiatria. Riassumo brevemente i punti che ritengo importanti dell'analisi.

    Tutte le industrie fanno il loro mestiere: a fini di profitto, producono beni ai quali corrisponde una domanda di consumo e, naturalmente, cercano di incrementare tale domanda al massimo grado, anche a rischio di indurre falsi bisogni. Certo, il consumatore rimane libero di scegliere, ma come noto, si danno numerosi strumenti atti ad influenzare la sua libertà. Tra questi, lo strumento principale è la pubblicità, che punta costantemente e monotonamente su due temi univoci: il primo fa riferimento allo status assegnato da un determinato bene, che esalta il bisogno di differenziazione individuale; il secondo, invece, verte sul fatto che il consumo di un determinato bene cambia la vita. Tali messaggi, ovviamente, sono efficaci solo in una società nella quale le persone esaltano le apparenze e sono più o meno insoddisfatte.

    L'industria degli psicofarmaci ovviamente non può fare pubblicità dato il fatto che i consumatori in questione, i pazienti, non sono liberi di scegliere: non possono insomma autoprescriversi i farmaci. La pubblicità, dunque, si orienta non sul consumatore ma sul medico che, se in conseguenza di una diagnosi lo ritiene opportuno, ha il potere di prescriverli. Naturalmente, in termini ufficiali non si parla di pubblicità, ma di informazione scientifica rivolta alla classe medica.

    Il riferimento alla classe medica, però, comporta esso stesso un limite. Sulla carta, un medico può prescrivere qualunque cura. Di fatto, su alcuni terreni specialistici, che richiedono competenze particolari, egli tende a non correre il rischio di cimentarsi in un'impresa che potrebbe ritorcersi a suo danno. Per quanto riguarda il disagio psichico, lo specialista di riferimento è lo psichiatra.

    Il problema che si è posto alle industrie psicoafarmaceutiche in questi anni è stato quello di una domanda crescente, legata alla crescita continua del disagio mentale, che però non imbocca la via giusta per trasformarsi in consumo per due motivi. Il primo è legato alla persistente tendenza delle persone ad associare il disagio all'esperienza di vita, rifiutando di riconoscerlo come una malattia in senso proprio. Il secondo è da ricondurre alla difficoltà di rivolgersi tout-court agli psichiatri, accettando l'etichettamento sociale.

    L'assillo dell'industria è stato quello di formulare una strategia che permettesse di tradurre la domanda di cura in consumo di psicofarmaci. Tale assillo ha riguardato tutte le esperienze di disagio psichico, ma in particolare la depressione che, giunta ad investire nei paesi occidentali, un quinto della popolazione, è divenuta in prospettiva una fonte di profitto senza pari nell'ambito della medicina.

    2.

    La strategia in questione è stata portata avanti finora in tre modi.

    Il primo è stato quello di commissionare, sponsorizzandole, una serie innumerevoli di ricerche universitarie (presso istituti psichiatrici) rivolte a convalidare la causalità primariamente biologica della depressione. Per questa via, come ho avuto occasione di ribadire più volte, non si è giunti a nessuna prova scientificamente inoppugnabile dell'ipotesi organicistica. Ma, dato che le ricerche ovviamente si sono tutte concluse sottolineando la probabilità che la depressione sia dovuta a cause biologiche, la loro somma è divenuta una certezza sbandierata ai quattro venti dagli psichiatri attraverso i media.

    Il secondo momento è stato quello di convalidare empiricamente la natura di malattia della depressione dimostrando la sua guaribilità con gli psicofarmaci. Anche per questo aspetto, sempre sulla base di laute sponsorizzazioni, sono stati coinvolti gli istituti di ricerca universitari. L'esito delle sperimentazioni è stato quello di confermare che l'80% delle depressioni guariscono o migliorano in maniera consistente con le cure adeguate. Altrove ho scritto che si tratta di una falsificazione lampante, e ho documentato che le verifiche di controllo successive, condotte da istituti di ricerca seri, hanno progressivamente abbassato la percentuale fino a portarla al 25%. Cionondimeno le industrie farmaceutiche, attraverso gli psichiatri, hanno continuato a propagandare che dalla depressione si guarisce con i farmaci.

    Il terzo momento è consistito nel tentativo di convincere l'opinione pubblica che la depressione è una malattia come le altre (classicamente, come il diabete), al fine di sormontare i pregiudizi che portano le persone che ne sono affatto a vergognarsi e a non sottoporsi alle consultazioni psichiatriche necessarie per curarla. Tale tentativo ha avuto scarso successo perché le persone, anche senza essere dotate di raffinati strumenti culturali, capiscono che, dato l'organo in questione, si tratta pur sempre di una malattia mentale.

    L'esperimento-pilota avviato negli Stati Uniti permette facilmente di comprendere che la strategia di catturare i consumatori potenziali di antidepressivi si sta ulteriormente sviluppando. Posto infatti che si tratta di una malattia come le altre e che gran parte dei pazienti, anziché consultare gli psichiatri, si rivolgono ai medici di base, è stato ritenuto opportuno evidentemente investire questi di una nuova funzione: quella di misuratori, attraverso il test, dello stato dell'umore della popolazione.

    Lo screening effettuato può consentire loro di intervenire direttamente sulle forme lievi di depressione, prescrivendo psicofarmaci sulla base di un test ufficialmente convalidato, e di indirizzare i pazienti affetti da depressioni più gravi verso gli psichiatri. Ad essi, inoltre, dato il rapporto fiduciario con gli assistiti, viene delegato il compito di farsi banditori dell'ideologia per cui la depressione è una malattia come le altre e può guarire se adeguatamente diagnosticata e trattata.

    Si potrebbe ritenere che l'iniziativa presa dallo Stato di New York rientri nell'ambito di una prevenzione ad ampio raggio di una patologia che ha un'indubbia incidenza sociale. Il problema è che, per la depressione come per ogni altra forma di disagio mentale, prevenire implica una conoscenza delle cause del fenomeno. Ora le certezze che la neopsichiatria accampa sulla causalità biologica della depressione sono in contraddizione con la sua incidenza epidemiologica. Questa contraddizione è stata colta dai neopsichiatri stessi sino a qualche anno fa. Essi infatti si affannavano a interpretare i dati che attestavano una crescita della depressione riconducendoli ad una maggiore sensibilizzazione dell'opinione pubblica che avrebbe consentito a molti pazienti di chiedere aiuto. Perché tanto affanno? Perché essi si rendevano conto che identificare la depressione come una malattia genetica comportava l'impossibilità di spiegare quella crescita nell'arco di una generazione, dato che i geni hanno il vizio di replicarsi in media solo ogni venticinque anni.

    Che cosa è cambiato? Nulla se non che i dati statistici sono diventati inconfutabili: negli ultimi venti anni la depressione si è raddoppiata se non addirittura triplicata. Questa crescita contesta alla radice la natura genetica della malattia. Anche senza una particolare preparazione scientifica, non ci vuole molto a capire che una malattia genetica, che tra l'altro comporta un rischio non insignificante di suicidio, non può essere una malattia sociale Che importa? Nella logica delle industrie farmaceutiche basta che la gente si convinca che ciò che dicono gli esperti non può non essere vero, e il gioco è fatto.

    3.

    Ho scritto più volte che la chiave psicodinamica univoca in tutte le forme di depressione sono le emozioni negative (rabbia, odio, vendetta, ecc.), consce e soprattutto inconsce, associate ad un senso di colpa più o meno grave. Quest'asserzione può apparire dogmatica come la pretesa causalità biologica della neopsichiatria se non si tiene conto se non si tiene conto di ciò che essa significa nell'ottica struttural-dialettica. In quest'ottica, le emozioni negative non hanno nulla a che vedere con una presunta asocialità o antisocialità della natura umana. Esse, che fanno parte dell'emozionalità di base della mente umana, si attivano allorché il soggetto sperimenta, nella relazione con il mondo, una situazione di frustrazione, di pericolo o di prevaricazione. Per un certo aspetto, dunque, sono riconducibili ai meccanismi presenti anche negli animali superiori che presiedono alla lotta per la vita, alla necessità della competizione. Per un altro aspetto, esse hanno qualcosa di specificamente umano: intimamente correlate al senso innato di giustizia, le emozioni negative entrano in azione ogniqualvolta, nella relazione con il mondo, l'individuo avverte di essere leso nei suoi diritti, prevaricato, maltrattato, assoggettato all'arbitrio, alla prepotenza, ecc.

    Ciò che negli animali può essere ricondotto all'aggressività, nell'uomo implica anche una protesta contro un ordine di cose vissuto come incompatibile con la dignità umana.

    Ma se questo è vero, perché questa protesta incorre, almeno in alcuni individui, in un processo di colpevolizzazione? La risposta è da ricondurre alla natura sociale dell'essere umano. Per quanto infatti le emozioni negative possano essere giuste o giustificate, esse implicano un'attribuzione di colpa riferita all'altro e un desiderio di fare giustizia che, a livello inconscio, può giungere facilmente alla fantasia di distruzione dell'altro. Nella misura in cui, superata una soglia critica, le emozioni negative violano la dignità dell'altro, esse attivano un senso di colpa quasi automatico, che può essere reso più o meno intenso dai valori culturali di riferimento, che identifica in esse l'espressione di un'ingiustificabile cattiveria.

    La contraddizione intrinseca alla depressione è che il soggetto ñ lo sappia o meno ñ ce l'ha a morte con qualcuno o al limite con tutto il mondo e, nello stesso tempo, ritiene se stesso colpevole. è evidente che il conflitto che genera la depressione verte, da una parte, sui diritti individuali e per un altro sui doveri sociali. La formula culturale cui può essere ricondotto tale conflitto somma al non fare all'altro quello che l'individuo non vorrebbe mai che fosse fatto a lui, il non sopportare che l'altro faccia quello che non dovrebbe mai fare.

    Naturalmente, questa formula va di volta in volta interpretata nelle sue valenze soggettive, interpersonali, sociali, culturali. Arrabbiandosi a morte, può darsi che un individuo sbagli nell'interpretare la situazione nella quale si trova. Nel sentirsi in colpa, può darsi che egli drammatizzi, per condizionamenti culturali, emozioni che in sé e per sé non comportano alcun pericolo di danneggiare o far male all'altro. In breve: ogni esperienza depressiva va valutata in sé e per sé per capire in quale misura la protesta che essa implica ha un carattere oggettivo o soggettivo.

    Ciò detto, riesce evidente che, nel momento in cui la depressione diventa una malattia sociale e investe una quota consistente e crescente di una popolazione, ricondurre l'incidenza epidemiologica ad una somma di vicissitudini individuali appare piuttosto ridicolo. è evidente che essa implica qualcosa che non va nel rapporto tra natura umana e cultura, vale a dire nell'ambiente sociale e culturale.

    La crescita della depressione in termini statistici dovrebbe promuovere dunque, al di là delle vicissitudini personali che possono essere le più varie, la domanda sul perché una determinata società produce rabbia in un numero sempre più elevato di persone e perché, se quella rabbia ha un qualche fondamento oggettivo, essa si traduce in un senso di colpa.

    Per quanto riguarda la società americana, la risposta sembra abbastanza semplice.

    Si tratta infatti di una società fondata per un verso su di un forte individualismo competitivo e, per un altro, su di un senso di appartenenza comunitaristico abbastanza elevato. In pratica, sul piano della vita quotidiana il cittadino americano vive l'altro come un potenziale rivale con cui lottare per affermarsi. Sul piano della vita collettiva, viceversa, il richiamo all'appartenenza comunitaria, alla Patria, ad una cultura comune la cui matrice è la religione è incessante.

    Si può minimizzare questa contraddizione in riferimento al fatto che il protestantesimo statunitense implica, come ogni Cristianesimo, che i credenti costituiscano nel loro insieme una comunità, ma, nello stesso tempo, fa della salvezza individuale un fatto strettamente personale. Ciò significa che, per salvarsi, non basta appartenere alla comunità dei credenti: ciascuno deve confidare in se stesso e nella grazia divina. Se questo è vero, non è meno vero che la competizione per la salvezza non implica la rivalità con l'altro. In Paradiso c'è posto per tutti.

    Ciò che è accaduto negli Stati Uniti, grazie all'affermazione della cultura conservatrice liberista e tradizionalista sotto il profilo religioso, nel corso degli ultimi decenni è stata l'avanzata dell'individualismo competitivo nell'ottica del darwinismo sociale e, nello stesso tempo, l'accentuazione dei richiamo ad un'appartenenza comunitaria minacciata da un odio serpeggiante nel mondo nei suoi confronti. è evidente che una situazione sociale e culturale del genere, che esaspera contemporaneamente i diritti individuali, sancendo l'egoismo come virtù, e i doveri sociali, assoggettando l'individuo alla logica del bene comune, pone a dura prova gli equilibri mentali collettivi.

    Un serio programma di prevenzione della depressione dovrebbe tenere conto di questi aspetti, e cercare di applicarli ai diversi contesti sociali.

    Negli Stati Uniti l'esperimento-pilota indica che si è imboccata una via apparentemente pragmatica. La depressione, identificata con una malattia come le altre, va solo diagnosticata e curata per ridurre le sofferenze individuali e i costi sociali. Il pragmatismo, come ho cercato di argomentare, è alimentato dall'ideologia neopsichiatrica e dalla logica delle industrie psicofarmaceutiche per le quali la depressione è null'altro che una domanda da trasformare in consumo di pillole.

    è temibile e prevedibile che un modello del genere si estenda anche all'Europa.

    Che cosa si può fare se non sottolineare che laddove il disagio psichico assume una configurazione sociologica, esso va assunto come un sintomo che non può essere interpretato in termini medici e, per essere spiegato, postula il ricorso a categorie del tutto estranee alla neopsichiatria?

    Edited by maria rossi - 11/9/2008, 13:30
     
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  5. Armisael
     
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    No spetta del manuale sono il primo a non fidarmi, è che ho avuto modo di parlare con pazienti che hanno scelto consapevolmente, per evitare di ricorrere a farmaci troppo pesanti, di sottoporsi a TEC, ovviamente fatta con giudizio...e sono soddisfatti, certo gli effetti collaterali dei primi giorni sono terribili ma anche comprensibili...

    E la cosa mi interessa proprio perchè sto valutando pure io un'eventualità del genere...anche perchè già la vita fa abbastanza schifo, non c'è bisogno che mi autoalimenti la depressione in un circolo vizioso...
    Come dici tu però forse la depressione è il sintomo e non la malattia. Ma dubito che l'eliminazione delle cause sia meno aberrante della cura dei sintomi del singolo.


    Tutto qui...sempre nella speranza che la medicina, per quanto perfettibile, resti ai livelli italiani senza farsi condizionare dalle sirene della "scuola USA" che purtroppo per motivi sociali ed economici sembra prendere piede con facilità in alcune pratiche.
     
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  6. l.anepeta
     
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    Mi limito solo a dire che lo sponsor ufficiale della proposta di “protocollare” la terapia elettroconvulsivante come estrema carta da giocare dopo il fallimento delle terapie farmacologiche è l’ineffabile Prof. G. B. Cassano, vale a dire lo stesso che, anni fa, sosteneva che quelle terapie guarivano l’80% dei pazienti depressi. I controlli hanno fatto diminuire la percentuale al 60, al 50, al 40 e, ormai, considerando quella che si definisce la sintomatologia residua (l’anedonia, vale a dire l’incapacità di provare piacere nel vivere), al 30%.
    Il problema è chiaro. Aumentando la quota di pazienti ai quali è stata promessa la guarigione e non guariscono, la psichiatria non è in grado di riconoscere la sua impotenza. Rilancia la terapia elettroconvulsivante per non abbandonare i pazienti a se stessi e al loro male oscuro.
    La crociata è sempre umanitaristica.
    Il male è oscuro per gli psichiatri che non hanno occhi per vedere e orecchie per intendere.
    I sintomi della depressione, come peraltro di ogni “patologia”, sono sempre di un’inquietante eloquenza.
    Ho scritto a riguardo due articoli su Nilalienum, ai quali rimando.
    Luigi Anepeta
     
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  7. maria rossi
     
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    Mi ha colpito leggere della vagheggiata possibilità di sottoporsi volontariamente ad elettroshock da parte di Armisael per venire a capo di uno stare male che evidentemente lo tocca e logora da tempo e in maniera "invalidante". Mi dispiace e mi fa rabbia perchè è l'ennesima controprova che le persone che stano male di testa sono quasi sempre dotate di una qualche sensibilità in più (e il fatto che un giovane studente di psichiatria-se non ho capito male!- si sia imbattuto e confrontato in questo forum per me già un pò lo dimostra) rispetto alla media e che ,invece,i "curatori" siano spesso responsabili di gravi perdite di tempo, cronicizzazioni farmacologiche, assenza di lavoro in presa di coscienza critica e consapevolezza personale (e coneguente "liberazione" rispetto alla propria storia e al proprio cammino) con conseguente autoconvinzione finale da parte dei pazienti stessi di essere diventati dei "vuoti a pardere" senza rimedio e senza scampo. Mi fa male che passi silente e inosservata- ad ogni livello,non solo psichiatrico- qualsiasi tipo di legittimazione nel considerare e/o considerarsi persone venute male,difettate,rotte ecc.ecc..sulle quali non si riesce a venire a capo. Mi fa rabbia perchè questo presuppone l'ideologizzazione -consapevole o meno- della disuguaglianza e dell'ingiustizia fuori e dentro di noi. Non solo a livello colletivo politico, sociale ma anche inter-relazionale, intimo e privato. Le mistificazioni sembrano difficili da riconoscere e smantellare ma fanno di tutto per farsi scoprire, facendoci male, facendoci stare male!
    Consiglio vivamente ad Armisael di trovare un buon terapeua struttural-dialettico e di tornare ad avere fiducia nella strana e balorda razza umana (e quindi in se e in qualche brava persona che lo possa aiutare a fare un percorso diveso da quelli battuti fin'ora) e nell'azzardo della vita più che in uno shock elettrico. La consapevolezza di se,l'approfondimento della propria storia in un'ottica interdisciplinare, antropologica e l'uso critico ed empatico della propria coscienza rispetto a se e agli altri, spesso sono l'unica via pe stare meglio! Qui alla Lidi ci sono alcuni terapeuti i gamba ma sono tutti a Roma...
     
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  8. star***
     
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    Ciao devo dire che a me a fatto male, il solo pensare a questa cosa.....Non la riesco a nominare e non sono riuscita a scrivere niente! Volevo solo confermare la validità dei terapeuti che ci sono alla LIDI e che mi hanno aiutata..spero che ogni persona trovi la sua strada senza impatti troppo violenti!!!
     
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  9. asabbi
     
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    avevo visto quel video anche io...ultimamente.
    Ho ancora i crampi allo stomaco....ma come è possibile?
    a volte penso che quando ero piccola mia madre ha rischiato di essere rinchiusa in un manicomio solo per vendetta.....chissà come me l'avrebbero restituita.
     
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  10. asabbi
     
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    ...comunque se la richiesta non è volontaria, sono le famiglie che firmano la liberatoria per sottoporre un parente a questa pratica. E' la stessa faccenda dei bambini iperattivi a cui vengono somministrati gli psicofarmaci....le famiglie hanno paura, non sanno, si fidano dei medici e...accettano ahimè.
    E' veramente triste
     
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  11. l.anepeta
     
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    Permettetemi un’osservazione antipsichiatrica.
    E’ noto che le depressioni preesistenti diminuiscono nel corso delle guerre e in seguito a catastrofi naturali, laddove invece aumentano i cosiddetti disturbi post-traumatici da stress.
    Il mistero è facile da spiegare, se si prescinde dalla banalità per cui, impegnate a fronteggiare problemi oggettivi, le persone si distraggono da quelli soggettivi.
    Una dinamica frequentemente rappresentata nelle depressioni, che implicano quasi sempre un nodo oscuro di sensi di colpa, è il bisogno inconscio di punizione, vale a dire il “masochismo morale”. Sulla base di questa dinamica, ovviamente non consapevole, non c’è da meravigliarsi che le depressioni diminuiscano in seguito a circostanze oggettivamente drammatiche.
    Di recente, ho avuto un’ulteriore prova di questo. Un mio paziente affetto da depressione residente a L’Aquila, che progrediva lentamente, è stato molto meglio dopo il terremoto, nonostante siano crollate ben due case di sua proprietà (oltre a quella dei familiari con i quali abitava).
    Se questo è vero, non c’è da meravigliarsi del fatto che un certo numero di soggetti depressi migliorano quando sono sottoposti a pratiche terapeutiche “maltrattanti”. Ad alcuni basta essere bombardati di psicofarmaci. Ad altri non bastano gli effetti collaterali dei delle cure farmacologiche. Sono i pazienti "resistenti" che, talora, traggono vantaggio dalla TEC (eufemismo che rimuove il riferimento allo shock).
    Sono giunto per la prima volta a questa conclusione lavorando in O. P., ove, nel Padiglione che gestivo, tra i pazienti se ne davano pochi nostalgici della TEC, e altri, più numerosi, fieramente avversi a questa pratica (ovviamente ripetutamente subita). Tutti i pazienti nostalgici tendevano ad agire comportamenti autolesivi, imploravano di essere contenuti con i legacci e, non soddisfatti, si atteggiavano in modo da farsi picchiare dagli altri pazienti o di costringere gli operatori a bombardarli con i farmaci.
    Mutatis mutandis, questa conclusione si è rafforzata negli anni seguendo sul piano psicoterapeutico soggetti depressi .
    La componente masochistica che sottende un elevato numero di depressioni, e talvolta ne rappresenta la matrice dinamica più attiva, è un grosso problema perché, se essa non viene elaborata, il soggetto non può fare a meno di maltrattarsi o di farsi maltrattare dalla vita, dagli altri o dagli psichiatri.
    Rispondere a questo bisogno con la TEC implica solo la rozzezza e la cecità degli psichiatri, che ritengono di aiutare i pazienti a soffrire di meno. Bastonarli, conseguirebbe con alcuni gli stessi effetti.
    Del resto, e non è un caso, risultati positivi si ottenevano in passato con altri metodi di shock (le docce gelate, la sedia ruotante, le scosse elettriche applicate sulla cute, ecc.). Allego un articolo pubblicato su Nilalienum che documenta il furor curandi della psichiatria.
    Gli psichiatri sostengono che l’efficacia della TEC è incommensurabile rispetto alle pratiche di shock del passato. C’è del vero, ma la spiegazione è semplice. Quelle pratiche venivano realizzate con il paziente vigile. Occorreva che questi fosse terribilmente masochista per non avere una reazione di rabbia che inattivava l’effetto terapeutico. E’ un caso che la TEC è divenuta più efficace da quando si è cominciato a praticarla in anestesia? Sotto anestesia, il paziente si prende la bastonata di cui ha bisogno, soddisfa cioè il suo bisogno inconscio di punizione, ma non se ne accorge.
    E’ inutile aggiungere che gran parte degli psichiatri, drogati dal DSM, sono in “buona fede”: pensano insomma di lottare contro il male oscuro che affligge i pazienti. Ma questo significa solo che essi sono ciechi, sordi e incapaci di capire l’umano: stupidi, insomma, vale a dire coscienze mistificate.
    Luigi Anepeta

    Edited by l.anepeta - 6/2/2010, 15:13
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  12. star***
     
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    E' vero. Questo bisogno di soffrire a volte è come se fosse radicato. Come se fosse impossibile godere della vita, perchè ogni volta si ha il terrore che dietro l'angolo ci sia l'uomo cattivo che ci aspetta per darci una bastonata. Nonostante uno legga, discuta, quella parte anche se sempre più piccola, alberga in noi. Ma continuo a chiedermi e a chiedervi, qualcuno di noi è riuscito a sconfiggere questo male? Certo, io rispetto a prima, sono più consapevole e riesco ad affrontare situazioni che prima sarebbero state disastrose. Ma quanti ci riescono? Il passato che per anni mi ha costretto in una gabbia me lo sento dentro come un fantasma che ogni tanto riappare. Si riesce prima o poi a disattivarlo? Senza contare l'empatia che mi fa percepire sempre quando sono a contatto con persone che soffrono. E questo fa soffrire anche me. Il cammino verso l'umanizzazione mi sembra ancora lungo e sempre più lontano.
     
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  13. asabbi
     
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    Sono molto triste...ieri un ragazzo giovane (23 anni), per l'ennesima volta si è ricoverato in reparto per essere "maltratto" e "drogato" .... è difficile aiutare quando il soggetto stesso non vuole ... come dice il dottore quì:

    "Una dinamica frequentemente rappresentata nelle depressioni, che implicano quasi sempre un nodo oscuro di sensi di colpa, è il bisogno inconscio di punizione, vale a dire il “masochismo morale”. "

    "La componente masochistica che sottende un elevato numero di depressioni, e talvolta ne rappresenta la matrice dinamica più attiva, è un grosso problema perché, se essa non viene elaborata, il soggetto non può fare a meno di maltrattarsi o di farsi maltrattare dalla vita, dagli altri o dagli psichiatri."



    Abbimao tentato di spronarlo (io e un'altro suo amico) a reagire e a cercare un contatto anche quì alla Lidi, ma abbiamo fallito.
    Sì sta facendo veramente molto male.
     
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12 replies since 22/1/2008, 01:57   1073 views
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