Bullismo, la sfida persa...

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  1. maria rossi
     
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    questo è un estratto da un articolo del dott.anepeta su nialienum.it, come sempre preciso e sul punto.
    Credo che chi lavori nella scuola (a qualsiasi livello) e chi dell'associazione stessa ne ha a che fare dovrebbe tenere bene a mente queste parole e trarre ispirazione sul tipo di interventi da modulare con i ragazzi. l'avventura, la sfida da cogliere...per loro e per noi!

    "Il nichilismo giovanile non è una presa di posizione filosofica, né l’espressione di un relativismo culturale giunto ormai all’estremo della messa in gioco di ogni valore.

    Esso rappresenta la reazione – viscerale più che riflessiva - ad un impatto che doveva sopravvenire nella storia dell’uomo: la fuoriuscita da una preistoria della coscienza individuale e collettiva sottesa da illusioni. Che questa fuoriuscita sia avvenuta con quattro secoli di ritardo rispetto alla rivoluzione copernicana, che ha tolto l’uomo dal centro dell’universo, e alla quale hanno fatto seguito quella darwiniana, che gli ha tolto la convinzione di non appartenere solo alla natura, e quella psicoanalitica, che ha mortificato la sua presunzione di essere padrone almeno in casa sua (in rapporto al mondo interiore), attesta solo la resistenza opposta dall’antropocentrismo.

    Il disincanto definitivo è sopravvenuto, negli ultimi cinquant’anni, con l’avvento della tecnologia, del benessere e della globalizzazione, che hanno reso l’uomo compulsivo, ma ponendolo di fronte alla sua insoddisfazione e inquietudine radicale: al suo essere, insomma, gettato nel mondo e incapace di trovare qualunque conforto nell’orizzonte culturale della mentalità piccolo-borghese.

    Le conseguenze del disincanto, a livello giovanile, sono devastanti perché la reazione più frequente alla scoperta della propria insignificanza, vulnerabilità e finitezza, è la negazione, vale a dire la fobia dell’umana debolezza che viene repressa dentro di sé e promuove il disprezzo per qualunque sua manifestazione fuori di sé.

    Ciò è avvenuto ed avviene all’insegna di due codici culturali che ho analizzato ne La Politica del Super-io, identificandoli nell’orizzonte sociale degli anni ’80: il codice adultomorfo e quello anestetico. Tenere conto dell’incidenza di questi codici, aggancia la soggettività giovanile, nella misura in cui ne è preda, alla storia sociale. Quei codici, infatti, sono i motori dello sviluppo capitalistico nella misura in cui hanno alimentato l’orientamento individuale verso l’autorealizzazione, al di là dell’appartenenza originaria e dei vincoli comunitari o di parentela, e hanno sovrapposto all’empatia la competitività e il desiderio di affermare la propria forza sull’altro e, se necessario, a danno dell’altro.

    Via via che la spinta rivoluzionaria della borghesia si è attenuata, quei codici sono divenuti disfunzionali. La società si è imborghesita, ma nel modo peggiore, in virtù di una scissione tra pubblico e privato. Si accetta, sul primo fronte, che la vita è una lotta per sopravvivere, compensata, sul secondo, da un reflusso verso un modo di essere appagato dalla sicurezza, dalla privacy, dal culto (formale) dei valori familiari. La scissione tra pubblico e privato come sfere distinte della vita, dominate da leggi diverse, che impongono di considerare l’altro ora come rivale ora come socius, è il tratto più tipico della mentalità piccolo-borghese.

    A livello giovanile, viceversa, i codici in questione sono stati interiorizzati e vengono vissuti in opposizione a quella mentalità, che mortifica il bisogno di opposizione e di originalità che continua a caratterizzare la psicologia adolescenziale. Essi, in breve, vengono utilizzati per rivendicare una vita che sfugga alla routine del quotidiano e, allo stesso tempo, per negare la consapevolezza della condizione esistenziale umana.

    I giovani, insomma, non accettano la normalizzazione piccolo-borghese, ma, nel tentativo di dare alla loro esperienza un significato originale ed eccezionale, per sopperire alla consapevolezza dell’insignificanza, cadono nella trappola dell’adultomorfismo e dell’anestesia. Le conseguenze di questa trappola sono micidiali perché essa promuove un’identificazione onnipotente che determina la spietatezza, la negazione della debolezza dentro di sé e la sua persecuzione fuori di sé.

    In questa ottica, l’aggressione del debole, dell’inerme, dell’inetto, del diverso, supportata dal gruppo esprime meno un difetto di empatia che la necessità di sancire uno scarto qualitativo tra l’Io-Noi e l’altro, colui che rappresenta la condizione esistenziale allo stato nascente. Attraverso l’aggressione, l’Io-Noi si sottrae all’angosciosa scoperta legata alla frontiera che l’umanità ormai ha raggiunto: scoperta che fa di ogni individuo un insignificante fuscello nel fiume della storia, del tempo, dell’Universo.

    C’è un’altra via per affrontare la crisi epocale cui s’è fatto cenno? C’è, ma è attualmente impervia e poco frequentata. Si tratterebbe, infatti, di indurre la consapevolezza e l’accettazione della sfida legata alla frontiera in questione. Tale accettazione implicherebbe giungere a sentire la propria condizione come universale: esperienza – questa – che pone fine alla distinzione tra forte e debole. In questa ottica, infatti, forte è colui che accetta l’umana debolezza e la riconosce in sé e negli altri.

    Su questa base, che introduce nell’orizzonte soggettivo la pietas per la propria e l’altrui condizione, ciascuno dovrebbe impegnarsi, sul piano personale e sociale, a fare fronte ad essa attraverso la coltivazione della vita negli aspetti che la rendono significativa: la cultura, gli affetti, la pratica sociale e, da ultimo, anche il confronto, purché esso avvenga sulla base dell’autorealizzazione.

    Evidentemente, è più facile sfuggire a questo impegno alimentando l’illusione della forza e comprovandola attraverso il suo esercizio a danno di coloro che, per motivi fisici o psicologici, non possono competere.

    Il “bullismo”, dunque, non è solo un comportamento criticabile e per alcuni aspetti perverso: è anche la prova che, giunti sulla frontiera di un disincanto epocale, i giovani sono catturati dall’esigenza di negare ciò che fa parte irreversibilmente del loro bagaglio di consapevolezza: la morte, la solitudine, l’abbandono, la paura.

    Occorrerà insegnare loro, sulla scorta di Marx, ad avere orrore di se stessi per fargli coraggio. E – aggiungerei – ad avere orrore dell’orrore che provano avendo scoperto, in conseguenza di un’evoluzione culturale cui non hanno partecipato, la realtà ultima della condizione umana."
     
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  2. maria rossi
     
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    24 giugno 1974. Il vero fascismo e quindi il vero antifascismo *

    «Che cos’è la cultura di una nazione? Correntemente si crede, anche da parte di persone colte, che essa sia la cultura degli scienziati, dei politici, dei professori, dei letterati, dei cineasti ecc.: cioè che essa sia la cultura dell'intelligencija. Invece non è così. E non è neanche la cultura della classe dominante, che, appunto, attraverso la lotta di classe, cerca di imporla almeno formalmente. Non è infine neanche la cultura della classe dominata, cioè la cultura popolare degli operai e dei contadini. La cultura di una nazione è l'insieme di tutte queste culture di classe: è la media di esse. E sarebbe dunque astratta se non fosse riconoscibile - o, per dir meglio, visibile - nel vissuto e nell’esistenziale, e se non avesse di conseguenza una dimensione pratica. Per molti secoli, in Italia, queste culture sono stato distinguibili anche se storicamente unificate. Oggi - quasi di colpo, in una specie di Avvento - distinzione e unificazione storica hanno ceduto il posto a una omologazione che realizza quasi miracolosamente il sogno interclassista del vecchio Potere. A cosa è dovuta tale omologazione? Evidentemente a un nuovo Potere.
    Scrivo "Potere" con la P maiuscola - cosa che Maurizio Ferrarà accusa di irrazionalismo, su «l’Unità» (12-6-1974) - solo perché sinceramente non so in cosa consista questo nuovo Potere e chi lo rappresenti. So semplicemente che c’è. Non lo riconosco più né nel Vaticano, né nei Potenti democristiani, né nelle Forze Armate. Non lo riconosco più neanche nella grande industria, perché essa non è più costituita da un certo numero limitato di grandi industriali: a me, almeno, essa appare piuttosto come un tutto (industrializzazione totale), e, per di più, come tutto non italiano (transnazionale).
    Conosco, anche perché le vedo e le vivo, alcune caratteristiche di questo nuovo Potere ancora senza volto: per esempio il suo rifiuto del vecchio sanfedismo e del vecchio clericalismo, la sua decisione di abbandonare la Chiesa, la sua determinazione (coronata da successo) di trasformare contadini e sottoproletari in piccoli borghesi, e soprattutto la sua smania, per così dire cosmica, di attuare fino in fondo lo "Sviluppo": produrre e consumare.
    L'identikit di questo volto ancora bianco del nuovo Potere attribuisce vagamente ad esso dei tratti "moderati", dovuti alla tolleranza e a una ideologia edonistica perfettamente autosufficiente; ma anche dei tratti feroci e sostanzialmente repressivi: la tolleranza è infatti falsa, perché in realtà nessun uomo ha mai dovuto essere tanto normale e conformista come il consumatore; e quanto all'edonismo, esso nasconde evidentemente una decisione a preordinare tutto con una spietatezza che la storia non ha mai conosciuto. Dunque questo nuovo Potere non ancora rappresentato da nessuno e dovuto a una «mutazione» della classe dominante, è in realtà - se proprio vogliamo conservare la vecchia terminologia - una forma "totale" di fascismo. Ma questo Potere ha anche "omologato" culturalmente l’Italia: si tratta dunque di un’omologazione repressiva, pur se ottenuta attraverso l'imposizione dell'edonismo e della joie de vivre. La strategia della tensione è una spia, anche se sostanzialmente anacronistica, di tutto questo.
    Maurizio Ferrara, nell’articolo citato (come del resto Ferrarotti, in « Paese Sera », 14-6-1974) mi accusa di estetismo. E tende con questo a escludermi, a recludermi. Va bene: la mia può essere l’ottica di un « artista », cioè, come vuole la buona borghesia, di un matto. Ma il fatto per esempio che due rappresentanti del vecchio Potere (che servono però ora, in realtà, benché interlocutoriamente, il Potere nuovo) si siano ricattati a vicenda a proposito dei finanziamenti ai Partiti e del caso Montesi, può essere anche una buona ragione per fare impazzire: cioè screditare talmente una classe dirigente e una società davanti agli occhi di un uomo, da fargli perdere il senso dell’opportunità e dei limiti, gettandolo in un vero e proprio stato di «anomia». Va detto inoltre che l’ottica dei pazzi è da prendersi in seria considerazione: a meno che non si voglia essere progrediti in tutto fuorché sul problema dei pazzi, limitandosi comodamente a rimuoverli.
    Ci sono certi pazzi che guardano le facce della gente e il suo comportamento. Ma non perché epigoni del positivismo lombrosiano (come rozzamente insinua Ferrara), ma perché conoscono la semiologia. Sanno che la cultura produce dei codici; che i codici producono il comportamento; che il comportamento è un linguaggio; e che in un momento storico in cui il linguaggio verbale è tutto convenzionale e sterilizzato (tecnicizzato) il linguaggio del comportamento (fisico e mimico) assume una decisiva importanza.
    Per tornare così all’inizio del nostro discorso, mi sembra che ci siano delle buone ragioni per sostenere che la cultura di una nazione (nella fattispecie l’Italia) è oggi espressa soprattutto attraverso il linguaggio del comportamento, o linguaggio fisico, più un certo quantitativo - completamente convenzionalizzato e estremamente povero - di linguaggio verbale.
    È a un tale livello di comunicazione linguistica che si manifestano: a) la mutazione antropologica degli italiani; b) la loro completa omologazione a un unico modello.

    Dunque: decidere di farsi crescere i capelli fin sulle spalle, oppure tagliarsi i capelli e farsi crescere i baffi (in una citazione protonovecentesca); decidere di mettersi una benda in testa oppure di calcarsi una scopoletta sugli occhi; decidere se sognare una Ferrari o una Porsche; seguire attentamente i programmi televisivi; conoscere i titoli di qualche best-seller; vestirsi con pantaloni e magliette prepotentemente alla moda; avere rapporti ossessivi con ragazze tenute accanto esornativamente, ma, nel tempo stesso, con la pretesa che siano «libere» ecc. ecc. ecc.: tutti questi sono atti culturali.
    Ora, tutti gli Italiani giovani compiono questi identici atti, hanno questo stesso linguaggio fisico, sono interscambiabili; cosa vecchia come il mondo, se limitata a una classe sociale, a una categoria: ma il fatto è che questi atti culturali e questo linguaggio somatico sono interclassisti. In una piazza piena di giovani, nessuno potrà più distinguere, dal suo corpo, un operaio da uno studente, un fascista da un antifascista; cosa che era ancora possibile nel 1968.

    I problemi di un intellettuale appartenente all’intelligencija sono diversi da quelli di un partito e di un uomo politico, anche se magari l’ideologia è la stessa. Vorrei che i miei attuali contraddittori di sinistra comprendessero che io sono in grado di rendermi conto che, nel caso che lo Sviluppo subisse un arresto e si avesse una recessione, se i Partiti di Sinistra non appoggiassero il Potere vigente, l’Italia semplicemente si sfascerebbe; se invece lo Sviluppo continuasse così com’è cominciato, sarebbe indubbiamente realistico il cosiddetto «compromesso storico», unico modo per cercare di correggere quello Sviluppo, nel senso indicato da Berlinguer nel suo rapporto al CC del partito comunista (cfr. «l’Unità », 4-6-1974). Tuttavia, come a Maurizio Ferrara non competono le «facce», a me non compete questa manovra di pratica politica. Anzi, io ho, se mai, il dovere di esercitare su essa la mia critica, donchisciottescamente e magari anche estremisticamente. Quali sono dunque i miei problemi?
    Eccone per esempio uno. Nell’articolo che ha suscitato questa polemica («Corriere della sera», 10-6-1974) dicevo che i responsabili reali delle stragi di Milano e di Brescia sono il governo e la polizia italiana: perché se governo e polizia avessero voluto, tali stragi non ci sarebbero state. È un luogo comune. Ebbene, a questo punto mi farò definitivamente ridere dietro dicendo che responsabili di queste stragi siamo anche noi progressisti, antifascisti, uomini di sinistra. Infatti in tutti questi anni non abbiamo fatto nulla:
    1) perché parlare di « Strage di Stato » non divenisse un luogo comune, e tutto si fermasse lì;
    2) (e più grave) non abbiamo fatto nulla perché i fascisti non ci fossero. Li abbiamo solo condannati gratificando la nostra coscienza con la nostra indignazione; e più forte e petulante era l’indignazione più tranquilla era la coscienza.
    In realtà ci siamo comportati coi fascisti (parlo soprattutto di quelli giovani) razzisticamente: abbiamo cioè frettolosamente e spietatamente voluto credere che essi fossero predestinati razzisticamente a essere fascisti, e di fronte a questa decisione del loro destino non ci fosse niente da fare. E non nascondiamocelo: tutti sapevamo, nella nostra vera coscienza, che quando uno di quei giovani decideva di essere fascista, ciò era puramente casuale, non era che un gesto, immotivato e irrazionale: sarebbe bastata forse una sola parola perché ciò non accadesse. Ma nessuno di noi ha mai parlato con loro o a loro. Li abbiamo subito accettati come rappresentanti inevitabili del Male. E magari erano degli adolescenti e delle adolescenti diciottenni, che non sapevano nulla di nulla, e si sono gettati a capofitto nell’orrenda avventura per semplice disperazione.
    Ma non potevamo distinguerli dagli altri (non dico dagli altri estremisti: ma da tutti gli altri). È questa la nostra spaventosa giustificazione.
    Padre Zosima (letteratura per letteratura!) ha subito saputo distinguere, tra tutti quelli che si erano ammassati nella sua cella, Dmitrj Karamazov, il parricida. Allora si è alzato dalla sua seggioletta ed è andato a prosternarsi davanti a lui. E l’ha fatto (come avrebbe detto più tardi al Karamazov più giovane) perché Dmitrj era destinato a fare la cosa più orribile e a sopportare il più disumano dolore.
    Pensate (se ne avete la forza) a quel ragazzo o a quei ragazzi che sono andati a mettere le bombe nella piazza dì Brescia. Non c’era da alzarsi e da andare a prosternarsi davanti a loro? Ma erano giovani con capelli lunghi, oppure con baffetti tipo primo Novecento, avevano in testa bende oppure scopolette calate sugli occhi, erano pallidi e presuntuosi, il loro problema era vestirsi alla moda tutti allo stesso modo, avere Porsche o Ferrari, oppure motociclette da guidare come piccoli idioti arcangeli con dietro le ragazze ornamentali, si, ma moderne, e a favore del divorzio, della liberazione della donna, e in generale dello sviluppo... Erano insomma giovani come tutti gli altri: niente li distingueva in alcun modo. Anche se avessimo voluto non avremmo potuto andare a prosternarci davanti a loro. Perché il vecchio fascismo, sia pure attraverso la degenerazione retorica, distingueva: mentre il nuovo fascismo - che è tutt’altra cosa - non distingue più: non è umanisticamente retorico, è americanamente pragmatico. Il suo fine è la riorganizzazione e I’omologazione brutalmente totalitaria del mondo.


    * Sul "Corriere della Sera" col titolo "Il Potere senza volto"

    Edited by maria rossi - 26/5/2008, 13:48
     
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  3. maria rossi
     
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    alcuni filmati:

    https://www.youtube.com/watch?v=FQjX2eNCu74

    un attore giovane e in gamba che parla del mondo del suo lavoro ecc.ecc.

    https://www.youtube.com/watch?v=dXQLk6WsK5U

    ricerca filmati sui ragazzi considerati "sfigati" dai loro coetanei:

    https://www.youtube.com/watch?v=r4FmA31WDp4

    https://www.youtube.com/watch?v=6NxEQ2qtLvM

    https://www.youtube.com/watch?v=hqu5bxBtUn8

    https://www.youtube.com/watch?v=Un5-W57Xsg0&NR=1

    https://www.youtube.com/watch?v=skzHYptMTo0

    https://www.youtube.com/watch?v=LDn8LfNffhI

    https://www.youtube.com/watch?v=oPSwBM42DRk

    https://www.youtube.com/watch?v=g7R07nihzl4

    https://www.youtube.com/watch?v=g3u3eQ5lrRw

    https://www.youtube.com/watch?v=Kcy6d_e5hes

    https://www.youtube.com/watch?v=rEltYqdAKSk

    Edited by maria rossi - 20/6/2008, 15:19
     
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  4. maria rossi
     
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    Non insegnate ai bambini


    Non insegnate ai bambini
    non insegnate la vostra morale
    è così stanca e malata
    potrebbe far male
    forse una grave imprudenza
    è lasciarli in balia di una falsa coscienza.

    Non elogiate il pensiero
    che è sempre più raro
    non indicate per loro
    una via conosciuta
    ma se proprio volete
    insegnate soltanto la magia della vita.

    Giro giro tondo cambia il mondo.

    Non insegnate ai bambini
    non divulgate illusioni sociali
    non gli riempite il futuro
    di vecchi ideali
    l'unica cosa sicura è tenerli lontano
    dalla nostra cultura.

    Non esaltate il talento
    che è sempre più spento
    non li avviate al bel canto,
    al teatro, alla danza
    ma se proprio volete
    raccontategli il sogno
    di un'antica speranza.

    Non insegnate ai bambini
    ma coltivate voi stessi il cuore e la mente
    stategli sempre vicini
    date fiducia all'amore il resto è niente.

    Giro giro tondo cambia il mondo.
    Giro giro tondo cambia il mondo.

    Giorgio Gaber
     
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  5. houccisoilariadusieleièrisorta
     
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    Oggi sto leggendo un altro libro, ho trovato un'altra cosa terribile :(

    Il bullismo in Giappone è una vera e propria piaga sociale, sia a scuola che al lavoro, peggio che da noi.

    Nel loro vocabolario c'è una parola specifica per un particolare tipo di bullismo che si dice "congelamento": è il mushi ovvero la scelta cosciente di ignorare l'altro e fingere che non esista.
    Ne parlavano raccontando della storia di un ragazzo, dicevano che un giorno, di punto in bianco, in quinta elementare è stato "congelato": i compagni cominciano ad usare il trattamento del silenzio; lo ignorano a mensa, nei campi da gioco, in strada fingono di non vederlo e anche in classe si comportano come se non ci fosse.

    Non è una crudeltà atroce? Mi ha fatto molta pena... mi sono immedesimata molto perchè, anche se non a questi livelli per fortuna, fino agli anni dell'università anche io dentro e fuori da scuola sono sempre stata una persona "invisibile" (nel senso che, ci fossi o non ci fossi, nessuno avrebbe sentito la mia assenza).

    Non oso immaginare cosa voglia dire andare in giro ogni giorno in un mondo che ti ignora coscientemente, rivolgersi alle persone e non avere risposte, sentire gli altri che parlano di te come se fossi morto.
     
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  6. yukino76
     
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    CITAZIONE (houccisoilariadusieleièrisorta @ 19/2/2013, 18:25) 
    Oggi sto leggendo un altro libro, ho trovato un'altra cosa terribile :(

    Il bullismo in Giappone è una vera e propria piaga sociale, sia a scuola che al lavoro, peggio che da noi.

    Nel loro vocabolario c'è una parola specifica per un particolare tipo di bullismo che si dice "congelamento": è il mushi ovvero la scelta cosciente di ignorare l'altro e fingere che non esista.
    Ne parlavano raccontando della storia di un ragazzo, dicevano che un giorno, di punto in bianco, in quinta elementare è stato "congelato": i compagni cominciano ad usare il trattamento del silenzio; lo ignorano a mensa, nei campi da gioco, in strada fingono di non vederlo e anche in classe si comportano come se non ci fosse.

    Non è una crudeltà atroce? Mi ha fatto molta pena... mi sono immedesimata molto perchè, anche se non a questi livelli per fortuna, fino agli anni dell'università anche io dentro e fuori da scuola sono sempre stata una persona "invisibile" (nel senso che, ci fossi o non ci fossi, nessuno avrebbe sentito la mia assenza).

    Non oso immaginare cosa voglia dire andare in giro ogni giorno in un mondo che ti ignora coscientemente, rivolgersi alle persone e non avere risposte, sentire gli altri che parlano di te come se fossi morto.

    E' TERRIFICANTE. Del resto, il suicidio, in Giappone, soprattuto tra i giovani, è una vera piaga. Uno dei Paesi a più alto tasso di suicidi. Paese avanzatissimo e con una cultura millenaria (e affascinante), ma con certe ombre difficili da capire: un Paese che mi affascina in tutte le sue contraddizioni.

    Tutte queste letture sul Giappone (mi riferisco anche a quella sulla pazzia) hanno a che fare con la tua tesi, Ilaria? Hikikomori e affini??? INTERESSANTE.
     
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5 replies since 7/5/2008, 09:47   437 views
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