Testo della conferenza "Cervello, Mente e Infinito"

11 maggio 2008

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  1. lanepeta
     
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    Pubblico in Word come allegato il testo della conferenza dell'11 maggio per permettere, nell'attesa che esso venga messa sul sito, di scaricarlo e di leggerlo. Il testo è molto più denso rispetto all'esposizione orale che ho fatto cercando di rispettare i limiti della capacità di concentrazione e di tolleranza (emozionale) del gruppo. Sui vari temi condensati in esso occorrerà riflettere a lungo.
    Luigi Anepeta
    File Allegato
    Infinito.doc
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    Il testo della conferenza dell'11 maggio scorso è sicuramente assai bello e stimolante. In poche paginette l’ Autore racchiude la storia della specie umana, dall’ancestrale passato fino alle vertigini di un futuro tutto da costruire. Nel mezzo, noi, umani di oggi, casualmente introversi qui, oppure no, forse preferisco dire soltanto “noi umani”, dato che vedo in giro troppi che si arrabbattano ad urlare con tutto il fiato che hanno in gola IO IO IO, io introverso, io giovane, io donna, io artista, io alcolista, io genitore, io imprenditore, io psichiatra, io paziente, io matto, io studente, io docente...

    Essendo il testo fitto di considerazioni, molte le riflessioni (o forse solo vaghe intuizioni, per me, allo stato) e gli interrogativi che lo scritto suscita nei lettori. Per quel che mi riguarda, credo di aver colto nel testo della conferenza alcune risposte a questioni che mi ero posta in qualche mio intervento sul forum. Anche su questo aspetto la discussione potrebbe continuare (o meglio forse aprirsi...). Per me il problema, in questo particolare momento storico, sembra essere più quello di realizzare il bisogno di appartenenza, che non quello di individuazione. C'è dappertutto appunto la melmosa mucillagine...Come costruire una appartenenza sana, consapevole, libera, non fondata sulla paura? Se, d'altra parte, la paura di essere stati gettati nel mondo ha, alla fine, determinato nell'apparato mentale una dinamica persecutoria intrinseca, sembrerebbe che la paura dell'Altro, seppure è di origine storica, troverebbe comunque dove riversarsi ed attivarsi. Come sfuggire alla antropomorfizzazione anche di questa ancestrale Paura? Il Male, oggi, per un umano, può, come già diceva Leopardi, essere solo e soltanto quello che ci viene dalla nostra intrinseca condizione di esseri senzienti limitati? Come direbbe Luigi Anepeta, ecco che la giostra ricomincia e continua.
    Ma forse non v'è altro modo di risolvere il problema che attaccandolo dalla parte dell'individuazione. Ciascuno salvi sè. E salverà il mondo. Non è facile però accettare la massima. O realizzarla, senza incorrere nel rischio di limitarsi a curare, guicciardianamente parlando, il proprio “particulare”. Convinti magari che sia “l’universale”.
    Coltivare la propria Finitudine. Continuiamo a provarci...
    Rossana Ianni Palarchio

    Edited by rossanaianni - 17/5/2008, 10:09
     
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  3. lanepeta
     
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    La teoria dei bisogni va interpretata dialetticamente, altrimenti il rischio che si corre è di continuare a contrapporre socialità e individualismo. La contrapposizione viene da lontano e ha caratterizzato la cultura degli anni 70 del secolo scorso promuovendo aggregazioni giovanili che, nel corso del tempo, si sono dissolte come neve al sole.
    La verità è che entrambi i bisogni sono ricchi di potenzialità umanizzanti ed alienanti.
    L’alienazione spesso dipende dalla coltivazione unilaterale di uno di essi, ma talvolta è la loro condensazione a creare problemi.
    Un esempio. Lo spostamento verso destra di una componente giovanile maggioritaria è dovuto al fatto che entrare nel gruppo dei camerati dà un forte senso di appartenenza (Noi), ma allo stesso tempo alimenta una percezione elitaria dell’individuo.
    Tra i due bisogni, il più pericoloso è quello di appartenenza. Originariamente funzionale a promuovere la solidarietà del gruppo, in conseguenza della complessificazione della società esso è divenuto la matrice del conformismo e dell’omologazione.
    La stigmatizzazione dell’individualismo egoistico, che caratterizza il nostro mondo, può assumere facilmente una valenza moralistica.
    La mucillagine non è un insieme di monadi chiuse nella coltivazione degli interessi privati, ma di soggetti che condividono valori, modi di agire e pregiudizi, vale a dire una mentalità che dà alle persone l’illusione di fare parte di un gruppo o di un ceto.
    L’appartenenza sociale è un fatto, è l’orizzonte non trascendibile dell’esperienza di ogni soggetto. E’ il significato che assume e le forme in cui si realizza che consentono di definire il suo carattere umanizzante o alienato.
    L’individuazione, peraltro, non è una chiusura, ma un’espansione dell’essere su tutti i piani, quindi anche quello sociale.
    Non diversamente dall’appartenenza, anche l’individuazione mira a sopperire alla mancanza ad essere costitutiva della soggettività umana. Essa, però, implica l’agire nella direzione di una progressiva differenziazione ed umanizzazione.
    Il soggetto individuato non pensa a salvare sé, ma a riversare anche nei rapporti sociali che intrattiene le sue potenzialità umane.
    Nel nostro mondo c'è un difetto di socialità autentica, ma esso è conseguente ad un tasso piuttosto carente di individuazione.
    Luigi Anepeta

    Edited by lanepeta - 5/6/2008, 19:25
     
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  4. maria rossi
     
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    http://www.rai.tv/mpplaymedia/0,,RaiTre-Re...5E85920,00.html

    Scusate ma aggoingo un contributo concreto, pratico, reale rispetto a quanto avete toccato in questa sezione.
    Esperienza di credito senza interessi in Svezia. Oltre a interpretare il mondo, cambiarlo (come diceva Marx) per se e per gli altri in nome di una società basata sulla reciprocità e la solidarietà, aldilà edll'ideologia neoliberale.

    Riporto anche il sito della realtà che sta promuovendo un'iniziativa analoga nella nostra città.

    http://www.magroma.it/
     
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    Sul tema del bisogno di appartenenza, tema “politico” per eccellenza, credo, nell’ambito della teoria struttural-dialettica, cedo la parola all’Autore, cui spetta di diritto, proponendo un brano dalla sua recensione al saggio di Duccio Demetrio, La vita schiva. Perché, come lui stesso ha scritto in Abracadabra e nell’Abbecedario “è bello dialogare con gli uomini grandi, che hanno sentito le nostre stesse cose, ma le esprimono meglio e ce le fanno capire”.

    p.s. Ieri pomeriggio alla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma c’è stata la presentazione del saggio di Duccio Demetrio, cui ha partecipato anche il dott. Nicola Ghezzani. In un clima silenzioso e raccolto s’è parlato di timidezza, introversione, scrittura autobiografica... Tanti modi di declinare la parola «introversione». Ma in un’ «aria di famiglia»...
    p.p.s. il grassetto nel brano che riproduco è mio.

    « Una nuova programmazione sociale significa una riforma delle istituzioni pedagogiche sulla base di una concezione della natura umana affrancata dalla necessità di un ingabbiamento normativo (che produce cittadini adattati) e aperta al potenziale di differenziazione creativa che, sia pure in misura diversa, è implicito in ogni corredo genetico individuale.
    Certo, la possibilità di raggiungere uno statuto di equilibrio e di “saggezza” sul piano personale, che è l’obbiettivo proposto da Demetrio, si dà anche nel nostro mondo. Ma, posto che esso sia raggiunto, convivere con una sensibilità che restituisce inesorabilmente come penosa l’esistenza della maggioranza dei soggetti non è un bel vivere, tranne che non ci si chiuda nella torre d’avorio di un’esperienza elitaria. L’esperienza di Nietzsche, che si è cimentato su questo terreno, attesta che questa soluzione può essere addirittura pericolosa, almeno per gli introversi geniali.
    La disalienazione individuale non può prescindere da una persistente preoccupazione per lo stato di cose esistente nel mondo. Nessuna società, presumibilmente, sarà mai del tutto affrancata dalla necessità di un codice normativo e dall’esigenza che la maggioranza della popolazione si adatti ad esso senza metterne sistematicamente in discussione le norme, le regole e i valori e senza interrogarsi sul loro significato storico. Ciò non significa però che i codici normativi si equivalgano. Nulla vieta di pensare che un nuovo codice normativo possa promuovere, oltre all’adattamento all’esistente, una qualche attenzione al mondo interiore e al suo protendersi, in varia misura, verso una differenziazione personale che accresce il tasso di autenticità e riduce il conformismo passivo.
    La preoccupazione degli introversi per lo stato di cose esistente postula, risolti i problemi personali, la definizione di un progetto comune il cui obbiettivo, utopistico ma non dereistico, è e non può essere che una rivoluzione culturale, all’insegna del motto proverbiale per cui chi libera sè (e nella misura in cui si libera) libera gli altri.
    La LIDI, come noto, è nata con questo duplice intento. »
    (Luigi Anepeta, Recensione a Duccio Demetrio, La vita schiva, in www.nilalienum.it e www.legaintroversi.it)


     
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  6. Paolo55
     
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    L’infinito e la filosofia
    Come commento alla conferenza di Anepeta vorrei aggiungere una testimonianza di Pierre Hadot pubblicata nel libro di interviste “La filosofia come modo di vivere”. Credo che riesca a sintetizzare al meglio l’esperienza di infinito di cui ha parlato Anepeta. La domanda è “Lei era un bambino religioso?”
    “…..Era calata la notte e le stelle brillavano in un cielo immenso. A quell’epoca si poteva ancora vederle. Un’altra volta fu in una stanza di casa nostra. In entrambi i casi fui invaso da un’angoscia insieme terrificante e soave, provocata dal sentimento della presenza del mondo. In realtà ero incapace di esprimere la mia esperienza, ma in seguito sentii che poteva corrispondere a domande come: “ Chi sono?” “Perché sono qui?” Provavo un senso di estraneità, lo stupore e la meraviglia di esserci. Nello stesso tempo sentivo di essere immerso nel mondo, di farne parte, quel mondo che si estende dal più piccolo filo d’erba fino alle stelle. Questo mondo mi era presente, intensamente presente. Molto più tardi avrei scoperto che questa presa di coscienza della mia immersione nel mondo, questa impressione di appartenenza al Tutto, era ciò che Romain Rolland ha chiamato il “sentimento oceanico”. Credo di essere diventato filosofo da quel momento, se si intende per filosofia questa coscienza dell’esistenza, dell’essere-nel-mondo”
     
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  7. lanepeta
     
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    La citazione di Pierre Hadot, densa e vibrante, rievoca quella ben più famosa di Pascal :“Quando considero la breve durata della mia vita, assorbita dall'eternità che la precede e da quella che la segue, il piccolo spazio che occupo e che vedo, inabissato nell'infinita immensità di spazi che ignoro e che mi ignorano, mi spavento e mi stupisco di vedermi qui piuttosto che là, perché non c'è motivo che sia qui piuttosto che là, ora piuttosto che un tempo. Chi mi ci ha messo? Per ordine e volontà di chi questo luogo e questo tempo sono stati destinati a me?”.
    La nascita dell’autoconsapevolezza esistenziale riconosce sicuramente come sua matrice l’intuizione emozionale dell’infinito, che compare precocemente (anche intorno ai 5 anni quando i bambini sono particolarmente sensibili) e repentinamente sulla scia dell’allargamento dello spazio cognitivo ma del tutto indipendentemente da processi di elaborazione cognitiva.
    Dopo secoli, anche Hadot purtroppo ripete la fatidica domanda pascaliana: “perché sono qui?”.
    La filosofia si è estenuata nel tentativo di rispondere, giungendo quasi sempre a soluzioni metafisiche o spiritualiste. Non ha mai accettato (eccezion fatta per Nietzsche) la possibilità che la mente umana abbia la capacità di formulare domande senza senso.
    Il testo della conferenza pone tra parentesi il perché e cerca di dare una spiegazione naturalistica e neuropsicologica del vissuto da cui origina la domanda.
    La mente comporta la percezione della complessità della struttura cerebrale e la percezione della complessità del mondo esterno. Complesso non significa però infinito, ma - riferito ad un sistema - fatto di parti molteplici interagenti tra loro secondo leggi dinamiche non lineari.
    L’intuizione emozionale dell’Infinito è, dunque, a mio avviso, semplicemente l’intuizione inconsapevole del Caos (inteso in senso scientifico, ovviamente), non del Tutto o dell’Uno. Qualunque riferimento al Tutto o all’Uno è un tentativo filosofico di rimuovere l’angoscia prodotta da tale intuizione.
    Matrice dell’intersoggettività e dell’autoconsapevolezza esistenziale, l’intuizione emozionale dell’Infinito è anche una trappola potenzialmente pericolosa se, mettendo tra parentesi il suo carattere illusionale, si cerca di definire l’oggetto cui fa riferimento o se ne ricava l’idea di qualcosa che va al di là della materia e della sua organizzazione.
    L’intento naturalistico dell’articolo è esplicito. Mi preme sottolinearlo per ribadire: primo, che il tema dell’Infinito emozionale (vale a dire di un’illusione...) può essere affrontato prescindendo da qualsivoglia suggestione metafisica o spiritualista; secondo, che la Scienza ormai invade il campo tradizionalmente assegnato alla filosofia con contributi (neurotenia, neuroni specchio, ecc.) che spiegano ciò che essa non è mai riuscita a spiegare.
    Naturalmente, le discipline neuroscientifichea prescindono dal porsi la domanda sul perché siamo qui, limitandosi a prendere atto che l’evoluzione naturale ha prodotto un cervello capace di formularla, e che, tra l’altro, inclina ostinatamente e tendenziosamente a ritenere che un perché debba esserci, laddove presumibilmente c’è solo un come.
    Grazie del contributo, Paolo.
    Luigi Anepeta
     
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  8. Paolo55
     
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    La discussione sta prendendo una piega assai interessante. Purtroppo domani ho un esame ma mi riservo di rispondere nei prossimi giorni.
     
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  9. Paolo55
     
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    Non sta a me difendere la filosofia o la scienza, né tanto meno credo sia un problema del primato o della supremazia. Sono due campi diversi di indagine che utilizzano anche metodi e linguaggi diversi. Una cosa però è innegabile. Malgrado le evidenti aporie in cui la filosofia è incorsa, essa, fin dai tempi di Socrate, ha posto il punto di vista etico come centrale e come fine di qualsiasi indagine conoscitiva e questa è una sua peculiarità. I greci dicevano che la conoscenza è vuota se non ha come fine rendere felice l’uomo ora, in questa vita. C’è riuscita? Ha mantenuto le sue promesse? Io credo di si, la filosofia migliore c’è riuscita e quando c’è riuscita ha anche chiesto lo sforzo di mettere in pratica le sue verità. Ma che vuol dire che c’è riuscita? E’ riuscita a fondare una conoscenza valida ora e per sempre cui semplicemente adeguarsi? Non è questa la vittoria della filosofia, non è questo il fine della sua ricerca. Solo per fare un esempio, si è a lungo dibattuto nell’antichità su cosa sia la giustizia. E’ sicuramente un bene ma cosa è? Il fatto che nessun filosofo sia giunto a una definizione accettabile vuol dire che la ricerca è stata un fallimento? Non credo perché da una parte la giustizia è un comune sentire, e qui Anepeta concorderebbe, che sfugge a ogni spiegazione definitiva e dall’altra nessun discorso potrebbe mai rendere appieno la profondità della scelta di chi decide di vivere da giusto. La filosofia ci ha dato regole di condotta cui conformarsi? Neanche questo. Ma allora che fa la filosofia? Ci sprona semplicemente a cercare, continuamente, dentro di noi e insieme agli altri, cosa fonda la ragione delle nostre scelte che, se sono indirizzate al bene, non possono non renderci anche felici (eudaimonia), una felicità tutta umana e non divina. Perché cercare continuamente? Perché la filosofia sa che la nostra è coscienza umana, e quindi per definizione fallibile, strutturalmente lacerata, il nostro sapere è instabile, le nostre scelte precarie. La vita giusta, la vita saggia è un’aspirazione a cui si deve tendere ma che nel presente non potrà essere mai realizzata appieno. Solo chi sa di non essere saggio o giusto può aspirare a diventarlo. Se, ad esempio, pensiamo alla massima morale di Socrate che l’ingiustizia è un male sempre e che mai si deve commettere ingiustizia neanche per rispondere a un torto subito, ci rendiamo subito conto di quanto sia difficile attenersi a questa morale. Socrate ha addirittura scelto la morte pur di non contravvenire ad essa. Definire e vivere la giustizia. Questa è, per me, la filosofia buona, c’è anche una filosofia cattiva, come c’è anche una scienza cattiva, quella che ha la pretesa di ridurre tutto alla spiegazione scientifica, elevandosi a soluzione unica per tutti i problemi dell’uomo. Personalmente tento, con fatica, di utilizzare tutti i contributi, anche quelli rivelati, al fine di giungere ad una parvenza di verità, senza illudermi e senza scartare nulla, al solo fine di dare una ragione possibile alla mia esistenza. Sono felice? Non so, non sono un Greco e l’eudamonismo ora lo devo confrontare con l’edonismo dei modelli dominanti. So solo che non potrei vivere altra vita che questa che mi spinge a ricercare continuamente.
    Per concludere su Hadot e la citazione (bellissima anche quella di Pascal anche se mi pare più intrisa di un afflato religioso). Essa va contestualizzata. E’ una lunga intervista e siamo solo alle prime domande, quelle sull’infanzia. La risposta sottolinea l’importanza di questa scoperta legata appunto ai ricordi della sua infanzia. Continua asserendo che non c’era un legame tra questa esperienza e la sua fede religiosa infantile, anzi, a seguito di questa scoperta, ha cominciato a concepire la filosofia come “una trasformazione della percezione del mondo” e a vivere le frasi belle e fatte dei preti come “convenzionali e artificiali”. E conclude così “Quanto vi era di più essenziale per noi, non si poteva esprimere” Di tutto il passo mi preme sottolineare due punti: 1) è evidente il primato del sentire sul comprendere 2) il concetto di meraviglia. Per tornare a quanto detto sopra, la meraviglia è all’origine del pensiero greco. Platone e Aristotele parlano della meraviglia come di inizio della filosofia. La meraviglia ha due aspetti. Un cognitivo. La meraviglia nei confronti del mondo ci spinge a conoscerlo, cercando di superare la nostra ignoranza. Uno etico. La meraviglia per il mondo così com’è, e per chi lo abita, ci impone anche di rispettarlo.
    Domanda finale. Se anche la scienza ci avesse fornito ogni genere di risposta esauriente su come il mondo è, avremmo con ciò anche svuotato di contenuto quella meraviglia con cui guardiamo il mondo? Anche risolti tutti i problemi della scienza, non tutti i problemi sono scientifici o, detto altrimenti, non tutto ciò che accade è preordinato scientificamente
     
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  10. lanepeta
     
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    L’antitesi non verte tra scienza e filosofia, ma tra due modi di conoscenza l’uno dei quali accetta epistemologicamente e metodologicamente il limite, mentre l’altro tende a trascenderlo.
    E’ un fatto che l’apparato mentale, sotteso dall’intuizione emozionale dell’infinito, ha indotto da sempre gli esseri umani a interrogarsi sui più vari problemi - dalla cosmologia alla natura umana, dalla conoscenza all’etica, ecc. Non è colpa di nessuno se per un lunghissimo periodo di tempo la risposta a tali problemi si è potuta avvalere solo dei dati forniti dalla percezione del mondo esterno, dalla riflessione e dall’introspezione.
    Chi ama la filosofia, però, sa che una cosa è conoscerla attraverso i manuali di storia e le antologie del pensiero filosofico, un’altra attraverso la lettura dei testi. La lettura diretta pone troppo spesso di fronte ad una miscela di intuizioni profonde e di autentiche banalità, che vengono proposte con uno stile quasi costantemente assertivo e dogmatico, quando addirittura non profetico.
    E’ il morbo ideologico che affligge la filosofia: l’esigenza, intrinseca a quasi tutti coloro che assumono il ruolo di filosofi, di dire l’ultima, definitiva parola sull’argomento che affrontano. Da questo punto di vista, Hegel, le cui pagine sulla natura - en passant - sfiorano il ridicolo, si può ritenere il più onesto di tutti, perché quell’esigenza l’ha esplicitata.
    Non è per caso che la crescita del sapere scientifico abbia infine costretto la filosofia ad arrendersi al pensiero debole, che assegna al filosofo la funzione di prescindere da ogni intento totalizzante per non rischiare di essere ridicolizzato.
    La scienza non è immune dal morbo ideologico (basta pensare al razzismo fondato sulla genetica), così come non è immune dalle influenze storico-culturali (basta pensare al dibattito sulla climatologia ancora in corso).
    Essa, però, rispetto alla filosofia, è più protetta da tentazioni sistemiche in virtù della sua capacità di discriminare tra ciò che si può ritenere almeno relativamente accertato e le ipotesi di ricerca (o le opinioni).
    La prospettiva che io vedo all’orizzonte è quella di un umanesimo scientifico, che contrapponga al senso comune (espressione massima del morbo ideologico), un insieme di punti fermi - prodotti dalla scienza e dalla riflessione filosofica - che dovrebbero rappresentare la griglia di un nuovo sapere sulla natura e sull’uomo.
    Temo che l’ostacolo maggiore sulla via dell’integrazione sia legato, però, alla filosofia, che non rinuncia al suo ruolo di indicare agli esseri umani come si debba vivere. Il suo ruolo autentico, a mio avviso, imprescindibile dal valorizzare l’apporto delle scienze umane e sociali, è di aiutarli a prendere coscienza delle mistificazioni in cui vivono e che coltivano. In questa ottica, l’apporto di Marx, Nietzsche e Freud continua a sembrarmi molto più rilevante, per esempio, di quello di Heidegger, figura emblematica di Vate dalla coscienza mistificata.
    Consiglierei la lettura di Saggezza e illusioni della filosofia. Carattere e limiti del conoscere filosofico di Jean Piaget. Il saggio, difficile ormai da reperire, è molto equilibrato e suggestivo.
    Riguardo alla domanda finale, il discorso è complesso. Non penso che la scienza potrà mai modificare gli assetti emozionali umani. Continueremo pertanto, per esempio, a meravigliarci di fronte ad un cielo stellato. A riguardo, la scienza può solo farci capire che il buio punteggiato di luci che ci emoziona è semplicemente l’effetto di un’espansione dell’universo che determina un’estrema rarefazione e raffreddamento della materia. Senza questi processi, la vita non sarebbe mai comparsa e quindi noi non ci saremmo, perché solo il raffreddamento ha consentito il formarsi dei mattoni della vita. Ci emozioniamo, insomma, di fronte ad universo che progressivamente si svuota e si raffredda. Questo non ci impedisce di continuare ad emozionarci, ma ci fa capire in quale misura la trappola dell’Infinito può ingannarci.
    Luigi Anepeta
     
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  11. alanisluce
     
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    Che la scienza ci restituisca la dignita' e al contempo la responsabilita' della ricerca è talmente vero che l'epistemologia ci radica necessariamente al concetto stesso di limite... di debolezza , come complessità e forza allo stesso momento..

    ma bastano due versi...


    "...In purissimo azzurro
    Veggo dall’alto fiammeggiar le stelle..."

    (La Ginestra- G. Leopardi)

    due versi per immediatamente sentire ...senza dover spiegare, senza dover investigare cause nè effetti..
    due versi per essere immediatamente colpiti e rapiti da quella meraviglia che strega occhi e mente...una meaviglia che non indaga ma lascia palpitare...

    e quell'infinito che tanto illude e mistifica sembra a portata di mano... è lì negli occhi di chi vede e sublimemente lascia parole e senso in incanti di immagini accennate ..solo evocate...

    perchè in ogni dove...quell'azzurro ci appare purissimo quasi incredibilmene...e quelle stelle fiamme che dirimono ombre e piaghe dell'animo..almeno solo in quella visione, anche solo per un istante...

    E la poesia ci rende questo dono immenso...

    laddove nel rarefarsi dlla materia che si raffredda l'occhio si espande in pensieri liberi finalmente...soggiogati da una meraviglia che incanta...e il cielo stellato si infiamma...




    tiziana
     
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  12. lanepeta
     
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    Le virtù dell’immaginazione poetica sono indubbie. Ma quanta immaginazione c’è nella concezione dello spaziotempo einsteiniana o nell’ipotesi che avanzano alcuni fisici di un universo infinito o addirittura di infiniti universi?
    La scienza ormai compete, sul piano dell’immaginazione, con tutte le altre modalità di conoscenza adottate dall’uomo. L’Umanesimo scientifico cui faccio riferimento è, per ora, un’utopia. Esso, infatti, implica che si risolva il ritardo della cultura umanistica rispetto a quella scientifica.
    Il problema riguarda soprattutto la filosofia.
    I poeti è giusto che continuino a fare il loro mestiere di esploratori e cantori di un Infinito che non esiste. Essi sono irresistibilmente attratti dalle grandezze smisurate evocate dalla percezione e dall’intuizione. Gli scienziati sono piuttosto attratti da dimensioni infinitesimali, impercettibili: geni, particelle, ecc.
    Luigi Anepeta
     
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  13. elisabet
     
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    Sono sempre stata attratta sia dalle grandezze smisurate che dalle dimensioni infinitesimali e la mia vita e i miei interessi si sono dipanati così tra arte e scienza.
    Alla fine del liceo è stato proprio lo studio della filosofia a traghettarmi, in modo per me naturale, verso la facoltà di psicologia. Pensavo che lì avrei trovato metodi e strumenti più "scientifici" per affrontare la ricerca sull'umano, sul suo pensiero e sulla complessa struttura che genera questo pensiero, il cervello.
    La conoscenza scientifica mi attrae come altre forme di conoscenza ed il mio corredo emozionale si attiva ascoltando una musica di Haendel come leggendo un articolo sulle neuroscienze. Non mi ha mai spaventato, né reso meno umana, l'idea che il pensiero e la coscienza stessa nascano da connessioni neuronali. So anche che non si riducono a questo e che anche quando arriveremo a spiegare come, non avremo di certo dato risposte a tutto. Ma la ricerca è interessante e credo che non possa non riguardare anche la filosofia.
    A gennaio sono stata alla conferenza di presentazione di un libro di Catherine Malabou "Cosa fare del nostro cervello". L'autrice, nata in Algeria, insegna presso l'Università Paris X Nanterre ed è specializzata in Filosofia Contemporanea. Il libro è interessante, al di là delle critiche che possono essere fatte, perché propone una lettura filosofica del funzionamento cerebrale che comprende le ultime scoperte delle neuroscienze, favorendo così il tentativo di integrazione di saperi diversi.
    Riporto qualche frase dall'introduzione per dare un'idea dei temi trattati:

    "Il cervello è un'opera e noi non lo sappiamo.Noi ne siamo i soggetti -autori e prodotti nello stesso tempo- e non lo sappiamo. "Gli uomini fanno la loro storia ma non sanno di farla", afferma Marx, che in tal modo intende risvegliare una coscienza della storicità. In un certo senso affermazioni di questo genere si applicano al contesto e all'oggetto che trattiamo: "Gli uomini fanno il loro cervello ma non sono coscienti di ciò che fanno".
    L'attività principale del cervello ha un nome: PLASTICITA' (nervosa, neuronale, sinaptica) e ciò che abbiamo chiamato col nome di storicità costitutiva del cervello in effetti è la sua plasticità.
    L'errore è di pensare che l'uomo neuronale sia semplicemente un prodotto neuronale e non anche una costruzione politica ed ideologica (compreso il "neuronale" stesso).
    Non dobbiamo confondere la PLASTICITA' con la FLESSIBILITA' per non fare del cervello il servitore biologico dell'adattabilità, della polivalenza e della docilità imposte dalle nuove leggi dell'economia mondiale.
    Cosa fare del nostro cervello non è una domanda riservata ai filosofi, agli scienziati o ai politici, è una domanda che riguarda tutti e che dovrebbe permetterci di comprendere perché, nonostante il cervello sia plastico, libero, ci ritroviamo ancora e dovunque "in schiavitù".

    Leggerei molto volentieri il saggio di Piaget, ma non so dove trovarlo: qualcuno lo ha e potrebbe prestarmelo?
    Un saluto a tutti
    Elisabetta Bertini
     
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  14. Paolo55
     
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    Brevi puntualizzazioni. Concordo in parte con quanto detto da Anepeta e soprattutto con il suo progetto di umanesimo scientifico. Conosco, ed ho letto, qualche anno fa, il libro di Piaget. Non ho condiviso tutto ciò che ha scritto. Sicuramente ha fatto bene ad evidenziare i limiti della filosofia, in special modo di certa filosofia accademica.
    Il morbo ideologico purtroppo ci attanaglia tutti. Ogni persona si costruisce una sua Weltanschauung, una visione del mondo all’interno della quale cerca di ricondurre ogni aspetto dell’esistenza. Questa visione può essere più o meno aperta, più o meno ideologica ma certamente, per sua costituzione propria, tende ad essere totalizzante. In un libro, ormai datato, di Deleuze e Guattari, Che cos’è la filosofia?, essi parlavano della filosofia come continua costruzione di concetti nuovi e di piani teorici sovrapposti. Ogni filosofo costruiva il proprio piano teorico dopo aver demolito quello del filosofo precedente. E ogni piano aveva la pretesa di sostituire il precedente ed offrire una nuova visione del mondo totalizzante ed ultimativa. Tutto vero e la filosofia funziona anche così. Resta solo da evidenziare che la pretesa egemonica (non solo ideologica, ma appunto egemonica, cioè quella pretesa che tende a ridurre le altre conoscenze/scienze ad ancillae) non è il vizio fondante della sola filosofia. Anche la scienza attuale crede di essere in possesso dell’unico statuto epistemologico valido ( anche sui fatti etici?) e di poter ridurre il compito della filosofia alla sola costruzione del piano logico di utilizzo corretto dei saperi scientifici.
    Il problema non è, a mio avviso, di indicare agli altri esseri umani come si debba vivere, ma appunto di iniziare a vivere personalmente i principi che, dialetticamente e dialogicamente, si sono stabiliti e si continuano incessantemente a ricercare. Principi che, guarda caso, sono posti sempre, per la filosofia, su un piano etico.
    Ultima annotazione. Non concordo su quanto affermato riguardo ad Heidegger. Heidegger è un grande del pensiero del 900. Come tutti i grandi ha avuto la pretesa e la presunzione di dare un senso a tutto il sapere della sua epoca e non sempre in maniera convincente e condivisibile. Resta il fatto che le sue analisi sul dominio della Tecnica e, soprattutto, sulla vita mistificata sottomessa al controllo della società di massa, restano a mio avviso punti irrinunciabili di un pensiero critico. Questa ultima, in particolare, (quella che in Essere e Tempo definisce la vita del “si” impersonale) è una vera e propria denuncia delle forme di esistenza alienata. Tra parentesi, la critica al processo di deresponsalizzazione che l’uomo mette in piedi annullandosi nel “si” impersonale della società moderna, il cui modello è alimentato dalla pubblicità, trovò consenziente anche Marcuse che da giovane tentò una fusione tra fenomenologia a marxismo. Da marxista, chiaramente, criticò la soluzione adottata da Heidegger. Isolarsi sdegnosamente dal mondo, coltivando una improbabile redenzione personale attraverso lo studio e la ricerca
     
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13 replies since 13/5/2008, 21:19   904 views
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