Riguardo alle lezioni darwiniane

La struttura della teoria dell’evoluzione

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  1. maria rossi
     
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    Per chiunque abbia frequentato le lezioni su Darwin o si sia procurato il materiale relativo, ecco un articolo che ben si accorda a quanto detto e spiegato dal dott.Anepeta sul neodarwinismo e sulla densità di questo autore, Stephen Jay Gould.


    La struttura della teoria dell’evoluzione

    Stephen Jay Gould.
    La struttura della teoria dell’evoluzione.
    Codice edizioni, Torino 2003, pp. XXI-1732, € 65,00.



    Parlare di questa grande e ultima opera di Steven Jay Gould non è impresa facile, tanti e tali sono i temi e i riferimenti storici che vi campeggiano. Importa soprattutto in questa sede far capire al lettore di che genere di opera si tratta. Non è una mera ricerca storico-erudita su Darwin o sull’evoluzionismo, poiché ha ambizioni teoriche esplicite; non è però nemmeno una sistematizzazione teorica che pretende all’esaustività e alla concatenazione rigorosa di tutti i concetti pertinenti. Non lo è perché spesso l’esposizione teorica è inscindibile dalla ricostruzione degli argomenti dei teorici del passato (Darwin in primis; e poi Weismann, De Vries, Goldschmidt, tra gli altri). E per un altro motivo che Gould ha teorizzato: la teoria dell’evoluzione non può chiudersi in un sistema compiuto, quasi assiomatico, non può diventare “scienza normale”, passibile solo di ripetizione e insegnamento (tantomeno può ridursi a misure e statistiche), poiché la sua razionalità non è scindibile dal ritmo delle argomentazioni di Darwin e dei suoi successori, dalla plausibilità congetturale di “lunghi ragionamenti” costruiti a forza di metafore, analogie suggestive, esempi pregnanti, e corroborati da tracce, frammenti, prove indiziarie. Nella teoria dell’evoluzione c’è un’eccedenza della costruzione del ragionamento sull’oggettività del sapere acquisito, nel senso che la poetica e la retorica della prima condizionano l’amministrazione delle prove alla base del secondo. Il sapere prodotto da Darwin fatica a divenire un corpus indipendente dal gesto fondatore darwiniano. Ciò non significa che esso sia incomunicabile o impossibile da sviluppare e arricchire - al contrario: significa che, per continuare o trasformare la teoria dell’evoluzione occorre in qualche modo ripetere la sua fondazione, riaprire daccapo il “lungo ragionamento” e riorganizzare tutto l’apparato dell’argomentazione e della prova. Fin dalle prime pagine, appare con chiarezza che tale è lo scopo di Gould, in questo libro come in tutta la sua opera: ricostruire la razionalità evoluzionistica come unica possibile fedeltà al suo scopritore.


    Gould intende emendare Darwin su tre punti essenziali: 1) l’esclusività della selezione naturale come forza creatrice delle forme viventi; 2) l’omogeneità della selezione a livello di organismi rispetto a quelle a livello di specie, phyla, ecc., ritenute ricavabili per estrapolazione dalla prima; 3) il gradualismo nella formazione delle specie, ritenute prodursi per accumulo di variazioni infime via via selezionate a livello degli organismi. A questi tre punti Gould oppone le sue tesi centrali.

    1.

    La selezione naturale ha un potere prevalentemente negativo, nel senso che può solo eliminare le forme inadatte - in sé, però, la variazione è già “canalizzata” da leggi interne alle forme viventi: leggi necessarie di composizione dei piani strutturali dei corpi1 e loro accumulo contingente nelle sequenze storiche su cui agiscono variazione e selezione. Queste leggi danno una direzione alla variazione, le concedono un numero finito di alternative, su cui poi si eserciterà il lavoro eliminativo della selezione2.
    2.

    La selezione è gerarchica, obbedisce a leggi e a ritmi temporali diversi secondo che si considerino gli organismi, le specie, o altre entità, superiori o inferiori all’organismo (tesi già accennata da Darwin nel considerare una selezione collettiva della specie umana la cui logica non coincide con quella della selezione individuale, e anzi talvolta entra in conflitto con essa).
    3.

    Le specie si formano per “salti” bruschi intervallati da lunghe fasi statiche: dunque, la speciazione non è il risultato di un accumulo graduale, ma di un’“esplosione” di nuove forme che interrompe lunghi periodi “improduttivi”, e una specie non è il frutto di una modificazione graduale dei propri antenati, ma sorge già completa (tesi degli equilibri punteggiati, evidentemente legata alla tesi strutturalista: se gli organismi non sono mere somme di caratteri ma strutture organizzate, allora una specie, in quanto rappresenta una nuova organizzazione, non può sorgere per modificazioni delle singole parti, ma come discontinuità rispetto alle strutture esistenti).



    Lo sviluppo e l’argomentazione di queste tre tesi costituisce il nucleo della proposta di Gould e della sua lotta incessante contro l’adattazionismo, cioè contro la tesi per cui tutte le forme viventi e le loro imprevedibili storie evolutive dipendono, via selezione naturale, dall’adattamento all’ambiente, e dalla competizione degli organismi (o dei geni concepiti come individui dotati di scopi e desideri) per adattarsi nel modo migliore. Gould si è opposto a questo finalismo ipocrita degli ultradarwiniani (tra cui Richard Dawkins) ponendo a fondamento dell’evoluzione un pluralismo di fattori e di processi, da ultimo riconducibili a interazioni imprevedibili tra la necessità delle strutture e la contingenza delle storie (rigorosamente al plurale). In tal modo, egli ha ripreso la mossa (materialistica) di Darwin: sostituire a un discorso sull’Evoluzione in quanto logica onnicomprensiva e “cosa in sé” soggiacente ai fenomeni, uno studio di questi ultimi, cioé di singole linee evolutive da ricostruire nella loro contingenza.



    Andrea Cavazzini
    febbraio 2006


    Note

    1.

    Lo studio di queste leggi di correlazione risale a Goethe e a Geoffroy Saint Hilaire, sebbene presupponga la dimostrazione da parte di Cuvier dell’esistenza di una pluralità discontinua di piani anatomici reciprocamente irriducibili, e la concezione, sempre cuivieriana, dell’organismo come un tutto integrato.
    2.

    L’esistenza di tali leggi non era sconosciuta a Darwin, il quale sapeva bene che la modificazione di un carattere comporta spesso il cambiamento di tutta la struttura dell’organismo, ma egli riteneva queste “correlazioni della crescita” secondarie rispetto al potere della selezione - Gould attribuisce loro maggior peso, insistendo sul fatto che ogni elemento di un organismo subisce i vincoli della struttura complessiva, e elaborando una prospettiva “olistica” o strutturalista condivisa da genetisti (Richard Lewontin), psicologi (Leon Kamin) e biochimici (Steven Rose).

    da: www.uaar.it
     
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  2. maria rossi
     
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    e poi, ancora...

    Da materiali resistenti

    Ominazione
    La sindrome giovanile della specie


    Ripubblicato il saggio di Louis Bolk «Il problema dell'ominazione». Un testo del 1926 poco «politically correct», ma tutt'ora stimolante per gli studi filosofici sulla natura umana
    di Stefania Consigliere

    In After many a years dies the swan, un romanzo breve del 1939, Aldous Huxley narra del miliardario hollywoodiano Joe Stoyte che, terrorizzato all'idea della morte, chiede al suo medico di procurargli la ricetta dell'immortalità. Questi scopre che in Gran Bretagna il quinto conte di Gonister ha raggiunto e oltrepassato i duecento anni d'età mangiando ogni giorno intestina di carpa. I due si precipitano in Europa per incontrare il vegliardo e carpirgli il segreto, irrompono nella sua tenuta, ma del conte non v'è traccia: per le stanze del castello si aggira solo uno scimpanzè. La soluzione del giallo sta nel rapporto fra la forma umana e quella delle grandi scimmie antropomorfe: gli esseri umani mantengono per tutta la vita caratteristiche che, negli scimpanzè, sono proprie solo dei giovani; se un essere umano invecchiasse a sufficienza, suggerisce il racconto di Huxley, superata ogni possibilità di mantenere ancora i caratteri giovanili, acquisirebbe infine la forma anatomica di uno scimpanzè.
    Fisiologia dello sviluppo
    Si tratta della formulazione letteraria di un'ipotesi scientifica importante: quella che spiega l'evoluzione umana, o parte di essa, con la neotenia, ovvero col prolungato mantenimento di caratteri giovanili e perfino fetali. Louis Bolk, professore di anatomia dell'Università di Amsterdam, è stato fra i primi a formularla in una conferenza tenuta nel 1926 alla XXV assemblea della Società di Anatomia di Friburgo e pubblicata poi nello stesso anno in forma estesa. La traduzione è ora disponibile in italiano col titolo di Il problema dell'ominazione (a cura di Rossella Bonito Oliva, DeriveApprodi, pp. 96, euro 12).
    Punto di partenza di Bolk è la relazione fra anatomia e fisiologia nell'evoluzione della nostra specie. Nella paleoantropologia l'anatomia è strumento principe: quando tutto ciò che si ha a disposizione per la definizione e lo studio di una specie sono un paio di ossa fossili, la comparazione anatomica è indispensabile per poter dire alcunché. L'habitus mentalis del paleoantropologo sarà quindi quello di considerare l'evoluzione come accumulazione più o meno rapida nel tempo di modificazioni anatomiche. Contro questo assunto Bolk argomenta che l'anatomia evolutiva altro non è se non il sintomo di una modificazione molto più radicale e primaria, quella fisiologica dello sviluppo organico interno. La trasformazione fondamentale della nostra specie, che rende conto dell'essenza degli esseri umani, è l'estrema fetalizzazione, o neotenia, del nostro sviluppo: molte delle caratteristiche tipiche degli adulti di Homo sapiens si trovano infatti anche nei feti o nei neonati delle grandi antropomorfe; ma mentre le grandi antropomorfe superano questa configurazione lungo l'ontogenesi uterina ed extrauterina, gli esseri umani vi permangono per tutta la vita. In altre parole, il primum agens dell'ominazione non sarebbe affatto il bipedismo ma il prolungato mantenimento della condizione giovanile, di cui la postura eretta sarebbe solo una conseguenza.
    Nei primi decenni del Novecento l'ipotesi evolutiva principale per spiegare le somiglianze fra esseri umani e altre specie era quella della ricapitolazione, o legge biogenetica, proposta da Ernest Haeckel e divenuta proverbiale nella formula «l'ontogenesi ricapitola la filogenesi» - ovvero l'embrione, nel suo sviluppo, ripercorre le fasi filogeneticamente antiche della specie. In questo quadro, l'evoluzione corrisponde a un'accelerazione del processo embrio-fetale di trasformazione. L'ipotesi della fetalizzazione avanzata da Bolk si contrappone diametralmente a quella della ricapitolazione.
    L'ipotesi apre piste molteplici e pone diversi problemi. Il limite principale della teoria di Bolk, così come di quella di Haeckel, sta nel suo eccesso esplicativo, ma nessuna delle due ipotesi riesce a spiegare tutto, dacché l'esito finale del processo di sviluppo degli esseri umani non è lineare e unitario ma a mosaico.
    In epoca di sociobiologia imperante, tuttavia, l'enfasi di Bolk sui vincoli di coerenza interna dell'organismo rappresenta un utile contravveleno: esso permette infatti di rimettere in discussione il paradigma del «pan-adattazionismo», ovvero l'idea che, in ciascuna specie, ogni tratto sia analizzabile, in isolamento da tutti gli altri, come carattere a sé stante prodotto da uno specifico adattamento. Forse per tema di cadere in qualche forma di ideologia, forse per mancanza di fantasia, l'evoluzione della nostra specie è oggi interpretata, nella maggior parte dei casi, nei soli termini dell'adattamento all'ambiente: è ancora comune leggere nei manuali che i nostri antenati diventarono bipedi per osservare con più agio l'orizzonte in ambiente savanicolo, o per poter trasportare in braccio i piccoli, o ancora per mettere in rilievo gli organi sessuali. Dimenticando che l'evoluzione darwiniana non ha scopo ed è del tutto a-teleologica.
    Questione di razza
    Ma il valore più attuale del testo di Bolk sta soprattutto negli echi di antropologia filosofica che si leggono fra le sue righe e nelle intersezioni fra biologia, filosofia e teoria dell'evoluzione che riesce a evocare. Esso è dunque una tessera del mosaico concettuale che ruota attorno alla questione della natura umana, il cui vigore teorico ha ripreso slancio in Italia, negli ultimi anni, grazie anche all'operazione coraggiosa della rivista Forme di vita. Di fatto, è solo a partire da una visione ampia, teoricamente forte e ovviamente rischiosa della natura umana che è possibile impostare il discorso evolutivo in termini non banali: non certo per «staccare» nuovamente gli esseri umani dal mondo naturale, ma per mettersi in grado di vedere ciò che, nella nostra specie, è unico.
    Per finire, due considerazioni collaterali. La prima è di ordine estetico. Rispetto alle pubblicazioni scientifiche dei nostri anni, infatti, gli scritti di allora sembrano tutti capolavori letterari. Il saggio di Bolk non fa eccezione e dimostra in modo lampante, a contrario, la miseria della prosa scientifica attuale, ridotta dalla serializzazione degli articoli e dal sistema dell'impact factor a una sequenza di frasi che, per ciascuna disciplina, sono già largamente fatte. La seconda considerazione è invece di ordine sociologico: sorprende, nell'era del politically correct, la franchezza con cui gli scienziati della prima metà del Novecento esprimevano, all'interno delle loro argomentazioni, posizioni oggi reputate inconciliabili con la pretesa neutralità della scienza. Così, Bolk asserisce a chiare lettere di sostenere la teoria della disuguaglianza delle razze e non si fa scrupolo, contro ogni evidenza, di presentare le caratteristiche del sesso femminile come meno fetalizzate di quelle maschili. La sorpresa del lettore attuale di fronte a tanta chiarezza, tuttavia, è in larga misura ipocrita: le assonanze, passate e presenti, delle teorie scientifiche con la politica e i discorsi sociali dominanti restano invisibili solo a chi davvero non vuole vedere.
    Il Manifesto, forse del 9 (o 8) giugno 2006.
    materiali resistenti, 10 giugno 2006
     
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1 replies since 8/6/2010, 09:12   343 views
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