CITAZIONE (lanepeta @ 2/11/2007, 08:04)
Occhi pensosi
Un ragazzino di 14 anni è stato trovato morto a Ischia (Napoli), impiccato. I genitori avevano denunciato la scomparsa di D. G. alla polizia, ieri, nel pomeriggio. In serata gli agenti del commissariato hanno ritrovato il corpo del quattordicenne in un terreno non distante dalla casa in cui viveva con la famiglia. Gli inquirenti non hanno dubbi sul fatto che si tratta di un suicidio. Il ragazzo frequentava il liceo classico di Lacco Ameno. Davanti ai soccorritori, la madre, nella disperazione, ha detto che il figlio veniva preso in giro a scuola. Secondo le prime ricostruzioni il ragazzino, sarebbe stato più volte deriso dai compagni per la sua "eccessiva bravura" grazie ad un media del 9 conseguita in diverse materie. In particolare, il ragazzino si era candidato alle elezioni come rappresentante di classe, e non aveva ricevuto neppure un voto dai suoi compagni, che lo consideravano «un secchione». Il 14enne aveva parlato alla madre di questa sua forte delusione. Gli inquirenti hanno ascoltato alcuni dei suoi insegnanti, che lo descrivono come «una perla della scuola, dagli occhi pensosi...».
Gli occhi pensosi di D. evocano la meraviglia di un essere sollecitato dagli adulti a fare il suo dovere e a vivere virtuosamente, che, proprio per questo, viene deriso e umiliato dai coetanei che leggono, nel rispetto dell’Autorità, il segno di un’insopportabile legame di soggezione e di amore nei confronti dei Grandi.
La vicenda, purtroppo, è passata in secondo piano sulla stampa in rapporto al delitto commesso da un rumeno.
Ci sono pochi dubbi riguardo al fatto che quest’ultimo evento occuperà per giorni le pagine di cronaca e rimarrà impresso nell’immaginario collettivo. Del secondo non si avranno ulteriori notizie. C’è solo da sperare che non venga fuori qualche psichiatra a diagnosticare l’esplosione a ciel sereno di una depressione genetica.
All’oblio D. sarebbe potuto scampare solo se, anziché rivolgere la rabbia contro di sé, avesse imbracciato una pistola e fatto fuori due-tre compagni di classe. Non sarebbe stato giusto ovviamente perché i persecutori non erano in grado di valutare le conseguenze delle loro prese in giro. Il gesto, però, avrebbe sicuramente attivato l’interesse della stampa e dell’opinione pubblica.
L’omicidio, specie se agito da un immigrato, fa cronaca. Il suicidio di un adolescente, anche se maturato a causa di una “persecuzione”, è solo un evento triste.
Non sorprende (purtroppo) che la disperazione legata all’emarginazione esploda in forme di aberrante violenza, attraverso la quale un soggetto di fatto socialmente impotente afferma il suo potere di morte su di una donna indifesa.
Sorprende, invece, il tasso di violenza implicito nei rapporti quotidiani a livello scolastico, laddove, come nel caso in questione, la colpa di un soggetto è di fare il suo dovere.
Si può diventare “mostri” per inciviltà, ignoranza, miseria, esasperazione, ma si può anche rimanere vittime di un modo di essere virtuoso. La nostra società non sopporta gli eccessi nel male e nel bene.
Né troppo cattivi né troppo buoni: è questa la formula della normalità?
Luigi Anepeta
Questi i commenti su Repubblica (2. 11.2007)
IRENE DE ARCANGELIS
Lo spoglio dei voti va avanti e sul volto di Diego, 14 anni, i segni della delusione sono sempre più evidenti. Ci contava, su quell´elezione a rappresentante di classe, la quinta ginnasio del liceo classico "Scotti" di Ischia. Voleva essere il punto di riferimento dei suoi compagni, ma sui biglietti raccolti nel berretto sul banco il suo nome era stato scritto una volta sola accanto a parole di beffa. Per Diego è una sconfitta atroce. Torna a casa e, poco dopo, si stringe una corda intorno al collo. Si impicca a un albero vicino casa.
Viveva per la scuola e per lo studio, l´adolescente che il prossimo 5 novembre avrebbe compiuto 15 anni. Dal suo grande amore è arrivato invece il colpo basso che lo ha spinto al suicidio. Malessere di un´età difficile, ma anche, da quel berretto con le preferenze dei compagni, l´improvvisa, traumatica presa di coscienza di non essere accettato, ammirato dai suoi coetanei con i quali trascorreva gran parte del suo tempo. «La scuola mi dovrà rendere conto di quello che è successo a mio figlio», è il disperato sfogo della madre di Diego all´uscita dal commissariato di polizia. Perché per la donna il disagio di Diego, il suo essere diverso dai compagni, non era mai stato avvertito o preso in considerazione dai docenti. Anche loro interrogati, pure loro sconvolti. Perché quello di Diego è il quarto suicidio di uno studente al classico "Scotti" in tredici anni.
Lo scontro tra sensibilità diverse. Diego, famiglia di alta borghesia, un nonno materno noto studioso delle proprietà terapeutiche delle acque termali, viveva tra scuola e casa. Nel tempo libero scriveva favole e racconti. Figlio unico, era molto legato alla madre separata, da tre anni non aveva più notizie del padre residente a Roma. Per il resto solo scuola. La media del nove e la stima incondizionata dei professori. Ma non era così che lo vedevano i compagni. Per loro, vivaci adolescenti, Diego era un «secchione», uno che «pensava solo ai libri». Peggio, spiegano: «Era l´unico a entrare in classe quando facevamo sciopero. Un crumiro». Proprio i motivi per cui Diego non sarebbe mai stato eletto a rappresentante di classe. Eppure lui lo voleva fortemente. Così due giorni fa, davanti alla delusione saltata fuori dal berretto pieno di bigliettini, si è chiuso nel silenzio. Ma quando è tornato a casa si è sfogato con la madre, le ha manifestato tutta la sua delusione. «Stai tranquillo - le ha detto lei per calmarlo - Domani andrò a parlare con i professori».
Poco dopo, mercoledì pomeriggio, Diego è rimasto solo a casa, in via Mezzavia, a Lacco Ameno. Non ha scritto un biglietto, non ha lasciato un messaggio sul computer. È uscito, ha percorso alcune decine di metri, si è stretto una corda intorno al collo. Si è impiccato. Quando la madre, rientrata nel tardo pomeriggio, non ha trovato Diego a casa, ha subito lanciato l´allarme. È stata proprio lei a trovarlo, due ore dopo. Senza vita. Disperata è tornata sui suoi passi, è corsa in casa per prendere un paio di forbici. Quindi ha tagliato la corda usata da Diego e lo ha adagiato per terra nella speranza di salvarlo. Ma il ragazzo, come accerterà il medico legale, era morto da almeno due ore.
Marco Lodoli
La notizia del suicidio di un quattordicenne dà così tanta pena da rendere quasi impossibile una riflessione: soltanto immaginare i pensieri e i sentimenti che hanno portato quel bambino verso la morte getta in un abisso spaventoso, in fondo a un pozzo dove si può solo gridare di rabbia e di dolore. Pare che fosse il primo della classe, che avesse tutti nove.
E che per questo i compagni lo deridevano, lo tormentavano, lo escludevano. Pare sia questo il motivo del suicidio, anche se si fa fatica ad accettarlo.
Vicino casa mia c´è la parrocchia di Sant´Angela Merici, e ogni volta che ci passo davanti leggo una targa fissata sul muro: ricorda una visita di Giovanni Paolo II, ricorda la sua esortazione a tendere sempre alla santità. Non ad essere buoni, non ad essere bravi cristiani, ma essere santi. Quest´invito all´eccellenza mi dà sempre un brivido. Non importa se crediamo o meno in Dio, ciò che importa è quanto oggi crediamo al superamento dei nostri limiti, alla tensione verso il meglio, alla nostra possibile trasformazione in esseri nobili, valenti, impegnati a raggiungere la nostra vetta. Sembra che oggi in Italia questa spinta a raddoppiare o triplicare i propri naturali talenti sia dimenticata: si punta alla sufficienza, al sei esistenziale, alla linea di galleggiamento. Certo, la vita è dura, faticosissima, è già mantenersi a galla è un´impresa: manca il lavoro, mancano le prospettive, le speranze. Però è anche vero che ogni tentativo di dare di più, di uscire dalla palude tiepida e tranquilla è osteggiato. I ricercatori sono costretti a emigrare verso le università tedesche o americane, le menti più aperte e curiose devono andarsene, oppure accettare la mediocrità, la piccola raccomandazione, l´invito a non alzare troppo la cresta. E chi a scuola vuole dare il massimo, rischia di venire sbeffeggiato e messo nell´angolo. Darsi da fare è inutile, se non nocivo. In fondo la televisione è piena di gente che non sa fare nulla e ottiene primi piani, denari a manciate, popolarità. E la politica raccoglie tante mezzecalze che chiacchierano a vuoto e se la passano alla grande. Perché fare di più? Solo per umiliare i pigri, per sbattere in faccia agli inetti il proprio impegno? Attento, pigri e inetti sanno come vendicarsi, come ridicolizzare i tuoi sforzi.
Questa morte è atroce, ma può aiutarci a riconsiderare i valori di fondo della nostra società, a lavorare per un altro immaginario collettivo. Quel bambino finito così tragicamente deve essere un richiamo potente alla nostra coscienza, ricordare a tutti quanti che la vita ha un senso, ed è bella, solo se si dedica a quanto di meglio contiene e può esprimere: non dico alla santità o all´eccellenza assoluta, ma almeno a fare la propria parte fino in fondo, per non essere comparse scontente, rabbiose, ghignanti.
MARINA CAVALLIERI
Può cominciare tutto con una battuta, uno scherzo. Il pretesto può essere occasionale ma le conseguenze poi diventare infinite, dalla presa in giro si arriva alla persecuzione, dallo scherno si passa ad una guerra sottile. È una violenza sommersa, una situazione diffusa. In gergo si chiama «mobbing scolastico», è il tentativo da parte del gruppo di escludere o umiliare qualcuno percepito come capro espiatorio. Vittime possono essere i più bravi, quelli con problemi relazionali, o chi per qualche motivo è diverso, magari perché balbetta oppure perché non indossa le scarpe "giuste". «Siamo i genitori di S., una ragazza di 11 anni e di E., di 14 che frequentano la scuola media. Ci consideriamo fortunati rispetto altri genitori che hanno perso un figlio a causa del disagio subito in ambito scolastico. Infatti quando abbiamo trovato per caso una lettera di E. nelle quale minacciava il suicidio per quello che stava subendo abbiamo preferito farle cambiare subito scuola». Questa è solo una parte di una lunga lettera che si trova in uno dei tanti siti dove si confrontano esperienze di violenza a scuola, di mobbing in età evolutiva. Perché il ragazzo di Ischia non era solo.
«Sono episodi che in forma più sfumata capita di vedere. Noi professori cerchiamo di intervenire, cominciamo dalle cose più semplici come cambiare i ragazzi di posto fino a parlarne con le famiglie», racconta Lucia Mosca, insegnante in una scuola media di Ostia, «una situazione abbastanza tranquilla», dopo tanti anni passati in un istituto di frontiera. «Un tempo la scuola aveva qualche strumento in più per combattere queste situazioni, c´è stato in questi anni troppo pietismo, troppo giustificazionismo, bisognerebbe sottolineare di più le responsabilità individuali. La comprensione è necessaria ma occorre mandare un messaggio chiaro: certe cose non si fanno altrimenti si dà adito agli altri di fare lo stesso». Bullismo, mobbing, termini nuovi per definire un disagio antico che oggi però si fa più fatica a comprendere, soprattutto a circoscrivere. «La maggiore difficoltà di relazione per i ragazzi è tra i 14 e i 17 anni», dice Lucia Baglio, insegnante in un istituto professionale di Roma. «I professori dovrebbero fare di tutto ma non sempre ci riescono, i ragazzi non accettano l´intervento dell´adulto». Così accadono fatti difficili da controllare, così si va alla deriva «anche perché i ragazzi oggi sono molto meno motivati di un tempo, non hanno interessi che condividono in maniera forte che li tengano uniti, vanno avanti su schemi e modelli che gli vengono indotti ed è difficile trovare qualcosa che li coinvolga». Mobbing tra i banchi, microstorie che si somigliano, che si dimenticano, poi capita a qualcuno forse più fragile e allora qualcosa esplode. «I professori però dovrebbero preoccuparsi di più di quello che accade in classe, occuparsi anche delle relazioni tra studenti, non solo dell´insegnamento del programma. E se non è possibile ci dovrebbe essere uno psicologo a scuola», dice Anna Oliverio Ferraris, psicologa. «È compito di qualunque adulto che svolge un´attività educativa, se in famiglia si è accettati per quelli che si è, a scuola bisogna invece imparare a vivere con i diversi».