David Foster Wallace

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  1. lisa.c
     
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    DAVID FOSTER WALLACE
    Nel romanzo postumo la profezia del suo addio - Antonio Monda

    Esce in America il re pallido, un racconto in cui l’autore rivela il suo disagio esistenziale mettendosi tra i protagonisti.
    In quest’opera quasi kafkiana si tengono corsi per gli impiegati di “sopravvivenza alla noia”

    NEW YORK

    Nel 2006, in Italia per un reading, David Foster Wallace lesse il brano intitolato Estratto senza titolo da un qualcosa di più lungo che ancora non è lontanamente finito.
    Il testo trattava di fisco, di esattori, di tedio, di angoscia esistenziale e di illusori tentativi di ribellione, con uomini e dorme assolutamente anonimi, tra i quali si aggira con sgomento l’alter ego dell'autore, oppresso da una vita nella quale il dolore appare l’unica alternativa possibile alla noia. Era la fine di giugno, nell'atmosfera rilassata del festival Le conversazioni a Capri, e nessuno, neanche tra i più intimi, poteva immaginare che quel viaggio avrebbe rappresentato uno degli ultimi momenti di serenità della sua esistenza destinata a spezzarsi tragicamente due anni dopo.

    E nessuno poteva immaginare che quel titolo sincero e tormentato, in puro stile Foster Wallace, rappresentasse una dichiarazione di incompiutezza rispetto ad un romanzo destinato ad uscire postumo. David non amava le apparizioni pubbliche, ma quando si convinceva a partecipare ad un evento era generoso come pochi.

    Il festival si svolse nei giorni dei mondiali in Germania, e dopo la lettura del brano cominciò persino a parlare di calcio. Ora quel brano è diventato parte di The Pale King ( Il re pallido), titolo struggente nel quale gli amici riconoscono un autoritratto dell'autore. Il libro, che è stato portato a termine dal suo editor Michael Pietsch sulla base di frammenti, appunti e lunghissimi capitoli caratterizzati dal solito stile lucidissimo e funambolico. Il romanzo, che uscirà per "Little, Brown" due anni e mezzo dopo la sua morte (in Italia arriverà a settembre, per Einaudi Stile Libero), è stato preceduto da una serie di pubblicazioni di materiale inedito: la tesi con cui si laureò in filosofia e il discorso che fece ai laureandi del Kenyon College nel 2005, intitolato This is the water, nel quale ripropone, in maniera candida e ostinata, la domanda "che diavolo è l'acqua?".

    A questi testi vanno aggiunti Consider David Foster Wallace, David Foster Wallace: The Death of the Author and the Birth of a Discipline (la morte dell' autore e la nascita della disciplina) e The legacy of David Foster Wallace, con saggi critici di Don De Lillo e Jonathan Franzen e l'acquisizione, da parte della University of Texas, di 34 scatole di documenti, 300 libri della sua collezione personale e 8 faldoni di lettere private.

    C'è chi ha parlato di una "industria" che sfrutta il suo marchio, da "poeta estinto": il business del morto, ha titolato qualcuno, visto che, tra l'altro, The Pale King è già in testa alle prenotazioni di Amazon e si annuncia il caso letterario dell'anno. Come lo sono stati, per altro, Back Bone (Spina Dorsale) l’anticipazione del romanzo pubblicato sul "NewYorker", e Although Of Course You End Up Becoming Yourself. A road trip with David Foster Wallace (Sebbene tu ovviamente finirai per diventare te stesso. Un viaggio in compagnia di David Foster Wallace), un libro imperdibile
    per i fan dell'autore, nel quale David Lipsky racconta come accompagnò Foster Wallace nel 1996 durante la tournee promozionale di Infinite Jest per un'intervista su " Rolling Stone " che non venne mai pubblicata. Nelle conversazioni con Lipsky, e in questo romanzo pieno di dolore, risulta evidente come Foster Wallace abbia convissuto sino alla fine con la sensazione che il mondo fosse un luogo da vivere con l'incanto e la meraviglia di un bambino, ma tuttavia ineluttabilmente condannato alla prevalenza delle tenebre.

    Quando venne a Capri incantò il pubblico e gli amici con lunghe conversazioni su Federer e Raymond Carver, Kafka e il polipo cotto alla napoletana, meraviglia gastronomica di cui divenne golosissimo. E nel viaggio con Lipsky parla di televisione e università, di cinema e Internet, sapendo meglio di ogni altro che non può esistere la differenza tra cultura alta e popolare. Per questo uomo corpulento e timido, che amava essere accompagnato da due grandi cani, l’intelligenza stava nel “comprendere l'intimità delle cose".

    È questo il motivo per cui riusciva a provare la stessa gioia leggendo un bel libro e andando ad una festa da ballo organizzata nel refettorio di una chiesa Battista, come fece l'ultimo giorno del viaggio con Lipsky, dopo aver spiegato che "la popolarità è tossica" ed ammesso che era quello che voleva a venticinque anni. Per poi aggiungere, con voce sommessa, "le cose che mi riguardano mi mettono a disagio, e ciò è dannoso per me sia come persona che come scrittore, perché inevitabilmente toccano la mia vanità".

    Il libro di Lipsky testimonia anche l’ammirazione e la sincera amicizia con Jonathan Franzen. I due erano così legati che nel 2007 Franzen aveva cambiato i piani delle vacanze, decidendo di passare tutta l'estate in California con l'amico, quando aveva saputo di un suo primo tentativo di suicidio. Si deve all' affetto di Franzen se Foster Wallace ha resistito fino allo stremo alla sua depressione, e per qualche mese ha anche avuto l'illusione di sconfiggere il proprio male oscuro, tuttavia tra i due esi-steva un' autentica rivalità su chi potesse essere lo scrittore che meglio interpretasse le angosce ed i sogni della propria generazione.

    E nel romanzo postumo, strutturato come un finto memoir, tutti questi elementi sono presenti sino allo spasmo, e fa impressione leggere del protagonista, che porta il suo nome, fare appello a tutte le proprie forze per resistere ad una vita che è una routine, e in quanto tale è una condanna disumanizzante. Gli impiegati del centro esattoriale di Peoria, nell'Illinois, ricevono corsi di "sopravvivenza alla noia", ma per ottenere il massimo dell'efficienza la società è pronta a fare un passo ulteriore, privando ogni azione di qualunque sensibilità ed umanità. L'unico mo¬mento di libertà rimane nella possibilità di scegliere e pensare, e ciò che identifica il personaggio del libro con il vero David Foster Wallace è la generosità dei piccoli gesti e della condivisione. Quella che de Unamuno, a cui probabilmente ha pensato per il titolo, avrebbe definito la caratteristica più intima e determinante di un pallido cavaliere dell'ideale.

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    Da "Una cosa divertente che non farò mai più", cap. 3

    "C’è un episodio che ha fatto notizia a Chicago. Qualche settimana prima che mi sottoponessi alla crociera extralusso, un ragazzo di sedici anni fece un capitombolo dal ponte più alto di una meganave: un suicidio. Secondo i tg si trattava di pene d’amore adolescenziali (...) Secondo me c'era qualcosa'altro sotto, qualcosa che nessun servizio di giornale non sarà mai in grado di raccontare. In queste crociere extralusso di massa c'è qualcosa di insopportabilmente triste. Come la maggior parte delle cose insopportabilmente tristi, sembra che abbia cause inafferrabili e complicate ed effetti semplicissimi: a bordo della Nadir - soprattutto la notte, quando il divertimento organizzato, le rassicurazioni e il rumore dell’allegria cessavano- io mi sentivo disperato. Ormai è una parola abusata e banale, disperato, ma è una parola seria, e la sto usando seriamente. Per me indica una semplice combinazione - uno strano desiderio di morte, mescolato a un disarmante senso di piccolezza e futilità che si presenta come paura della morte. Forse si avvicina a quello che la gente chiama terrore o angoscia. Ma non è neanche questo. E' più come avere il desiderio di morire per fuggire alla sensazione insopportabile di prender coscienza di quanto si è piccoli e deboli ed egoisti e destinati senza alcun dubbio alla morte. E viene voglia di buttarsi giù dalla nave".

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    Scrive la sua traduttrice italiana, Martina Testa:

    "Ogni volta che ho tradotto un suo libro o anche soltanto un suo racconto gli ho sottoposto decine di dubbi e domande, e ogni volta lui mi ha risposto. Ogni volta mi ha risposto esprimendo innanzitutto disagio, fastidio, nel rapportarsi con chi doveva tradurre le sue pagine in un'altra lingua. Mi diceva - senza mezzi termini e con effetti devastanti sul mio morale - che il tale racconto non si poteva tradurre in maniera fedele e dignitosa, che la tale espressione era talmente ricca di sottotesti e allusioni e valori sonori che trasposta in un'altra lingua avrebbe perso di senso. Mi chiedeva - mi supplicava quasi - di lasciar perdere. Si potrebbe pensare a un atteggiamento di superbia.(...) Ma non era questo. Perché poi Wallace rispondeva: rispondeva impiegando decine di righe per delucidare in maniera certosina il significato di una singola parola, a volte di un singolo pronome o articolo. (...) La più grande paura di Wallace - la sua paranoia, forse - era quella di essere frainteso, di non riuscire a farsi capire, di non riuscire trasmettere con la massima cura e precisione una certa immagine, una certa idea o un certo pensiero. Aveva, ai miei occhi, una devozione quasi religiosa, o quantomeno profondamente morale, per la capacità del linguaggio di comunicare, di creare un ponte solido - tanto quanto elegante ed elaborato - fra il suo mondo interiore e quello esterno, fra la sua mente e quella dell’interlocutore. (...) Non mi interessa tanto, diceva, riprodurre il suono di un dialogo verosimile, quanto il movimento del pensiero dentro la nostra testa: e il pensiero umano è veloce, è denso, procede per associazioni e scarti improvvisi; mentre diciamo una cosa ne abbiamo già in mente un’altra ancora che avvia il processo mentale in una terza direzione".

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    Dal sito della casa editrice minimum fax

    “Perle wallaciane”

    La magia della letteratura

    Il mondo reale è pieno di solitudine esistenziale. Io non so cosa stai pensando o che cos’è che hai dentro, e tu non sai che cos’ho dentro io. Nella letteratura penso che in un certo senso riusciamo a saltare oltre questo muro. Ma questo è solo un primo livello, perché l’idea dell’intimità mentale o emotiva con un personaggio è un’illusione, un meccanismo creato dallo scrittore attraverso la sua arte. C’è anche un altro livello su cui un testo letterario diventa una conversazione. Fra il lettore e lo scrittore si instaura un rapporto che è molto strano, complicato e difficile da descrivere. Un ottimo brano di letteratura non è detto che mi catturi completamente e mi faccia dimenticare che sono seduto in poltrona. C’è della narrativa commerciale che è perfettamente in grado di riuscirci; una trama avvincente è perfettamente in grado di riuscirci: ma non mi fa sentire meno solo.
    Invece c’è una specie di: "A-ha! Qualcuno almeno per un attimo la pensa come me, o vede una cosa nel modo in cui la vedo io". Non capita sempre. Sono brevi flash, fiammate, ma ogni tanto mi capitano. E non mi sento più solo, a livello intellettuale, emotivo, spirituale. La letteratura e la poesia riescono a farmi sentire umano, a eliminare quel senso di solitudine, a mettermi profondamente e significativamente in comunicazione con un’altra coscienza, in una maniera del tutto diversa da quanto riescano a fare altre forme d’arte.

    Tv, piacere, dolore

    È troppo facile starsene semplicemente lì a torcersi le mani dicendo che la tv ha rovinato i lettori. Perché la cultura televisiva americana non è nata dal nulla. Quello che la tv è estremamente brava a fare – e rendiamocene conto, "non fa altro che questo" – è riconoscere cosa vogliono grandi masse di persone, e fornirglielo. E dato che nella cultura americana, o comunque dell’occidente industrializzato, c’è sempre stato un caratteristico e fortissimo disgusto per la frustrazione e la sofferenza, la tv eviterà queste cose come la peste in favore di qualcosa che sia facile e anestetico.
    In moltissime altre culture, se uno soffre, se ha un sintomo che lo fa soffrire, questo viene sostanzialmente interpretato come qualcosa di sano e naturale, un segnale del fatto che il sistema nervoso sa che c’è qualcosa che non va. Per queste culture, liberarsi del dolore senza affrontarne la causa profonda sarebbe come spegnere il campanello d’allarme mentre l’incendio divampa ancora. Ma se soltanto guardiamo la miriade di modi in cui in questo Paese ci sforziamo all’impazzata di alleviare quelli che sono semplici sintomi – dalle pasticche contro il mal di testa a effetto ultrarapido alla popolarità dei musical spensierati durante la Depressione – si vede una tendenza quasi compulsiva a identificare il dolore in sé con il problema. E così il piacere diventa un valore, un fine teleologico a se stesso. Se guardiamo l’utilitarismo – una teoria etica spiccatamente anglosassone – vediamo un’intera teleologia basata sull’idea che la migliore vita umana possibile è quella che raggiunge il tasso più alto di piacere rispetto al dolore. Lo so che il mio può sembrare un discorso bigotto. Ma voglio solo dire che dare la colpa alla tv è un atteggiamento miope. La tv è solo un sintomo come tanti altri. Non è stata la tv a inventare il nostro infantilismo estetico, così come non è stato il Progetto Manhattan a inventare l’aggressione. Le armi nucleari e la tv hanno semplicemente intensificato le conseguenze di certe nostre tendenze, hanno alzato la posta in gioco

    Edited by lisa.c - 19/4/2011, 14:01
     
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  2. maria rossi
     
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    per continuare...


    L’ultimo miracolo di David Foster Wallace, trasformare gli esattori delle tasse in eroi

    LOS ANGELES. La noia è sottovalutata. Bombardati come siamo da un arsenale sempre più vasto di armi di distrazione di massa, riscoprirla ci porterà sollievo. Forse salvezza. Ad avere il coraggio di guardarla negli occhi, senza distogliere lo sguardo, potrà diventare addirittura maestra di vita. David Foster Wallace, a parole, ci credeva. E, naturalmente, lo diceva meglio: «L’estasi – una gioia e gratitudine, secondo per secondo, per il dono di essere vivi, consapevoli – è l’altro lato di una schiacciante, schiacciante noia. Prestate molta attenzione alla più tediosa cosa che potete immaginarvi (la dichiarazione dei redditi, il golf in tv) e, a ondate, una noia come non l’avete mai conosciuta vi inonderà quasi al punto di uccidervi. Una volta che l’avrete superata, però, sarà come passare dal bianco e nero al colore. Come l’acqua dopo giorni nel deserto. Estasi istantanea in ogni atomo».

    Così, in una nota trovata nel garage dov’era solito scrivere, riassumeva il senso del suo ultimo romanzo. Una storia di esattori delle tasse. A Peoria, Illinois. In cui si sostiene che pagare le imposte è bello. Ovvero, per cercare di tradurre tutto in italiano, una bestemmia costata la carriera di un politico perbene (Padoa Schioppa) che non c’è più, ambientata a Voghera, nel fantastico mondo degli impiegati dell’agenzia delle entrate. Solo un matto o un genio totale poteva pensare di cucinare narrativa con questi ingredienti. «A David non piacevano le cose facili» spiega Bonnie Nadell, l’agente letterario che l’ha scoperto e seguito sino in fondo, mentre rigira tra le mani una copia staffetta di The Pale King, attesissimo libro postumo che uscirà oggi negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, «Dopo Una cosa divertente che non farò mai più le riviste gli chiedevano un sacco di reportage brillanti, ma lui detestava ripetersi. Non ci teneva a diventare il Woody Allen della letteratura. L’unico tema su cui cedeva era il tennis. Era stato un buon giocatore, da ragazzo, e gli piaceva ancora molto. Quando scrisse su Roger Federer lo seguì sino a Wimbledon per intervistarlo sì e no trenta secondi. Però prima l’aveva osservato incredibilmente a lungo e aveva visto cose che nessun altro aveva colto. Ecco, lui era così: non gli sfuggiva niente, davvero niente». Con una prosa ad altissima definizione, piena di invenzioni, digressioni sapienziali, colloquialismi alternati a un’esattezza da entomologo in una miscela che ne ha fatto il più interessante autore della sua generazione, era capace di raccontare qualsiasi cosa. Compresi gli altrimenti detestabili travet e trasformarli alchemicamente, parola dopo parola, in eroi del nostro tempo.

    L’occasione per parlare di DFW (nota per alcuni imperterriti recensori italiani: il cognome è Wallace, non Foster Wallace, così come Ciampi non è Azeglio Ciampi) è quindi l’uscita della «Cosa Lunga», come lui chiamava le oltre duemila pagine di bozze su cui lavorava da una decina di anni. Considera l’aragosta, la sua raccolta di non-fiction più spumeggiante, è dedicata appunto a Bonnie. Ed è dal minuscolo sofà rosso pompeiano del suo ufficio, che iniziamo un’escursione nella memoria della sua relazione professionale più lunga e decisiva. «Nell’85 avevo iniziato a fare l’agente a San Francisco da due settimane quando ricevetti una lettera di questo studente dell’università dell’Arizona in cui, descrivendo la strana storia di una ragazza che temeva di essere un personaggio di finzione, adoperava il termine “diacronico”. Non sapevo cosa significasse. Mi feci mandare il manoscritto e, essendo l’unica che ancora non aveva clienti, potei finirlo alla svelta. Lo trovai strepitoso: se all’epoca andavano forte i minimalisti, da Bret Easton Ellis a Jay McIrney, quella era la cosa più grossa, ingombrante, esagerata e massimalista che si potesse pensare».

    La scopa del sistema ricevette un anticipo di 25 mila dollari per una tiratura di 25 mila copie. Fu ben accolto ma non divenne un caso. Erano gli anni in cui Wallace, che soffriva di una seria depressione dal liceo, era passato dal portare un asciugamano intorno al collo per tamponare il sudore da attacchi d’ansia (portava anche una racchetta, per fingere che fosse un coerente completo sportivo), a una bandana sulla fronte per evitare, come diceva, che gli «esplodesse la testa». Finito il master si trasferisce in un buco di appartamento a Tucson. Non sta per niente bene. Scrive a Bonnie che beve troppo e ha pulsioni autolesionistiche. I suoi vanno a prenderlo e lo riportano a casa, nel Massachusetts. Si iscrive a filosofia a Harvard. Ma va presto in tilt. «Mi chiamò dalla divisione neurologica dell’ospedale McClean» ricorda Nadell, «e quando finalmente arrivai lo trovai in condizioni pietose. Ricordo di avergli tagliato i capelli perché non potevo vederlo così». Lo dimisero con un regime di Nardil, un forte antidepressivo, assegnandolo a una casa-comunità.

    «Se dovessi scegliere un solo aggettivo per descriverlo direi che era incredibilmente gentile. Con tutti. Quando già era diventato famoso e doveva fare un articolo su un conduttore radiofonico mi telefonò per sapere dove poteva comprare il pollo per tutta la troupe. Era più forte di lui, restava il beneducato figlio di professori del midwest». Quello che provava empatia per tutti, incluse le povere aragoste («È giusto bollire viva una creature senziente solo per il nostro piacere gustativo?») sulla cui sorte all’annuale fiera del Maine aveva imbastito uno strepitoso racconto morale. E che era così superiore alle normali convenzioni giornalistiche da permettersi di sguazzare per decine di pagine nel dubbio circa la promessa dell’allora candidato repubblicano John McCaine «di ispirare i giovani americani verso cause più grandi del proprio privato interesse». Che detto da qualsiasi altro politico puzzerebbe di retorica lontano un miglio, mentre da uno che potendo essere liberato anzitempo dalle carceri dei vietcong preferì di no, pretendendo che fosse rispettata la fila, acquista tutta un’altra credibilità.

    «Ciò che David era bravissimo a fare era mettere in pagina il funzionamento del proprio cervello, e la sua scrittura mimava proprio quel procedere per salti, associazioni, scarti continui». Era come se facesse entrare il lettore nel backstage della sua scatola cranica, ed era un viaggio elettrizzante. «Di che parlavamo? Molto di politica, della nostra comune avversione per gli assurdi anni di Bush. Poco di letteratura, che era invece l’argomento della nostra interazione professionale. Piuttosto di cose banali, di quell’infinità di fattoidi che la sua enciclopedica curiosità intercettava, dei miei figli, dei suoi nipoti».

    Infinite Jest, l’inespugnabile capolavoro del ’96, aveva risolto il problema della fama ma non quello di stabilizzarne l’umore. Nel racconto L’uomo depresso incarica un personaggio di definire efficacia (e limiti) dei farmaci psicotropi: «Funzionano bene, davvero, ma tipo vivere su un altro pianeta caldo, confortevole con cibo e acqua fresca: una buona cosa, quindi, ma non come la vecchia buona Terra». «Per lui, che per lunghi anni non ha voluto la tv per timore di diventarne schiavo e che andava avanti con una connessione lumaca a internet» osserva l’agente, «era un doloroso paradosso dover dipendere dalle pillole. Che ottundevano la sua capacità di sentire, di provare fino in fondo le emozioni». Così, nell’estate del 2007, decide di saltare giù dalla sua scialuppa chimica e abbandonare il Nardil.
    Erano successe tante belle cose. Nel 2002 aveva conosciuto l’illustratrice Karen Green che, due anni dopo, era diventata sua moglie (per lei aveva fatto barrare il nome dell’ex fidanzata da un tatuaggio e fatto aggiungere un asterisco con nota). A Claremont, dove insegnava, avevano messo su casa. Nel 2006 aveva partecipato a un incontro letterario a Capri dove era stato fotografato sorridente, abbronzato, mentre decantava le doti del polpo. Nell’agosto successivo scrive all’amico di sempre, Jonathan Franzen: «Mi sento un po’ “peculiare”, che è l’unico modo che trovo per descrivere il mio stato. Ma c’era da aspettarselo (dopo 22 anni) e non sono troppo allarmato». Nella primavera del 2008 si arrende e si fa prescrivere nuovi farmaci. Che però non funzionano più e chiede a Bonnie di disdire ogni impegno.

    A meno di tre anni dal suicidio il suo processo di canonizzazione procede a ritmi spediti. L’università del Texas ha comprato il suo archivio. Vari studi accademici sulla sua opera sono già usciti, altri sono in via di completamento. E tutto un coro: DFW santo subito. «Da una parte fa piacere, è l’agente che parla, che venda oggi 3-4 volte più di prima. Dall’altra, è l’amica a intristirsi di come tanti non avessero capito prima che razza di scrittore fosse, e che non riuscisse a entrare tra i bestseller del New York Times».

    Non era questo, ovviamente, il suo problema. A sentirlo parlare nel memorabile discorso del 2005 alle matricole del Kenyon College, quello del pesce anziano e dei pesci giovani e del fatto che l’unico trucco per sopravvivere è la consapevolezza, «imparare a pensare, a cosa prestare attenzione per scoprire che esistono sempre altre opzioni» e a quel punto anche nel più orrendo imbottigliamento di traffico, nella calca più nauseabonda, riuscirete a scorgere che «non solo c’è un significato, ma addirittura un che di sacro, acceso della stessa forza che illumina le stelle: compassione, amore, l’unità sotterranea di tutte le cose». Che problemi poteva avere uno così, chiedo a Bonnie? E lei, che ha retto per due ore rivivendo la loro inestricabile amicizia, cede alle lacrime. «Non lo so, è quello che mi sono sempre chiesta anch’io». L’infinito scherzo della vita, avrebbe forse spiegato il «re pallido» della narrativa americana.

    fonte: http://stagliano.blogautore.repubblica.it/...oi/?ref=HRESS-7
     
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