Introversi, stress e concentrazione

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  1. qualcosa91
     
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    Vi rompo sempre l'anima con i miei quesiti. Credo però che come sempre questi possano essere utili un pò a tutti. Il quesito questa volta riguarda la capacità di concentrazione dell'introverso. Inutile dire e prolungarsi, visto il materiale presente e discusso sul forum, che gli introversi perdono tante energie nel frenetico mondo estrovertito in cui vivono, per adattarsi, per non morire fondamentalmente, perchè ne hanno necessità. E' questo che ho notato. Questo si può portare a problemi di concentrazione vari, soprattutto se si è stanchi. Arriviamo al sodo: ho paura di non essere molto in grado di concentrarmi nelle letture. Faccio fatica ad immagazzinare testi con strutture un tantino complesse e questo è un grosso problema, visto che vorrei studiare all'università. La cosa è molto frustrante. Anche voi, oh carissimi introversi, avete stessi problemi? Quanti di voi ne hanno, se ne hanno? Non è sempre così, a volte riesco anche a concentrarmi, ma non molte delle volte. LA perdita di concentrazione ce l'ho anche quando devo stare a sentire un discorso strutturato in un certo modo, un pò articolato.
    Grazie mille, spero di non seccare troppo, mi rendo conto di prendere un pò di spazio qui sul forum.
     
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  2. davidedavidedavide.
     
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    Ciao :)

    non ti preocupare dello spazio sul forum: il forum è fatto apposta :)

    Mi viene da chiedere: intendi lo "stare con la testa tra le nuvole" o un'incapacità costante ad impegnarsi e a finire una lettura, un discorso, un libro? O anche una pagina?

     
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  3. tandream
     
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    Non è un problema da introversi... è un problema dei giovani in generale e non solo! : )

    Imparare a leggere davvero o anche ad ascoltare discorsi "complessi" è qualcosa che arriva col tempo. Io sono uno che divora libri e mi accorgo solo oggi che rispetto anche ad esempio ai tempi in cui andavo all'università, i libri riesco a capirli e a leggerli in una maniera decisamente imparagonabile rispetto a prima.

    Dipende da tantissimi fattori però. Se c'è interesse particolare al libro o al discorso diventa tutto più semplice. Non devi pensare che sia un grosso problema. E' qualcosa che si impara anche piano piano. Purtroppo nelle nostre scuole non ci insegnano davvero a leggere perché non ci insegnano il significato delle parole ma semplicemente come si pronunciano lettera per lettera è questo è un enorme buco che andrebbe colmato.

    Alla fine impariamo a leggere e a capire da soli attraverso, diciamo, l'esercizio e nel frattempo bisognerà fare qualche sforzo in più! Ovviamente tutto dipende anche dai livelli di stress e altro di cui tu stesso parli e spesso infatti credo che gli introversi diventino molto ansiosi se non riescono a capire concetti o letture per un esame o una qualsiasi prova. Non dev'essere un dramma, ma solo un modo per apprendere meglio la prossima volta.

    Io un po' la penso così: non ci insegnano davvero a leggere quando andiamo nella scuola dell'obbligo, ma semplicemente a "ripetere" o mentalmente o a voce i "codici" del testo che abbiamo sotto gli occhi dimenticando di insegnarci a capire davvero cosa quel testo vuol significare.
     
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  4. Freb85
     
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    Stavolta non sono di aiuto, mai avuto questi problemi (fortunatamente :) ) però seguirò con interesse la discussione
     
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  5. qualcosa91
     
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    Si, lo credo anch'io tandream. Forse comunque quello di imparare a leggere deve essere un percorso strettamente personale, credo.

    CITAZIONE (davidedavidedavide. @ 27/7/2012, 21:15) 
    Ciao :)

    non ti preocupare dello spazio sul forum: il forum è fatto apposta :)

    Mi viene da chiedere: intendi lo "stare con la testa tra le nuvole" o un'incapacità costante ad impegnarsi e a finire una lettura, un discorso, un libro? O anche una pagina?

    Continuo la risposta qui, rispondo a te e a tandream.
    Diciamo che ho molte più difficoltà con letture riguardanti testi a me più noiosi. Io parlo di una mancanza di concentrazione e di costanza nella lettura, ma ci sono altre mancanze oltre a questa: è da anni che tento di imparare a suonare la chitarra, strumento per me molto bello, ma non riesco mai ad applicarmi veramente, mi applico pochi giorni e poi via a pensare e a vivere, non so, passivamente. Non so che pensare. Dopo un pò divento nervoso, come se mi mancasse la pazienza. Per la lettura credo anch'io sia una mancanza nella tecnica, non sono un gran divoratore di libri io. Per il resto non saprei. Provo confusione, vado in ansia. Come se dovessi capire di ogni frase la struttura, il significato in maniera più che sicura per evitare di sbagliare. Per questo certe volte mi capita di rileggere una frase mille volte e nel frattempo deconcentrarmi. Altre volte la testa va via, si, come dici tu Davive, fra le nuvole.
    E' una seccatura pazzesca. Frustrazione direi anzi. Non credo mi manchino le capacità, non credo di essere dislessico... e allora che cavolo mi prende? stress_h4h
    Così non va bene.
     
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  6. davidedavidedavide.
     
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    Caro Quacosa91,

    quello che ti posso dire è che gli introversi di base presentano un modo di rapportarsi al mondo che, di natura, comporta uno status di cose chiamato la reverie da L.Anepeta, ti copio-incollo un frammento di articolo a riguardo:

    2. La rêverie

    Siamo ormai abituati a considerare il cervello un organo il cui orientamento funzionale è adattivo rispetto all’ambiente esterno. Questo aspetto è indubbio e vale anche per gli introversi, nei quali però si dà una programmazione diversa rispetto alla media. Questa diversità, che implica una particolare propensione per il mondo interno è stata rilevata originariamente da Jung, ma oggi va posta in termini più radicali.

    «Cosa significhi vivere affacciati e polarizzati sul mondo esterno e sentire che la relazione con esso soddisfa gran parte dei propri bisogni non necessita di ulteriori spiegazioni. Un matematico-filosofo (Renée Thom, Parabole e catastrofi, Milano 1980) ha avanzato l’ipotesi che la specie umana abbia acquisito le caratteristiche sue proprie nel momento in cui si è affrancata dalla “cattura” percettiva che il mondo esterno esercita su tutti gli altri animali, i quali vivono dunque sul registro di un realismo assoluto, ingenuo e presentificato. L’ipotesi è suggestiva, ma nulla toglie al fatto che, attraverso la mediazione dei sensi, il mondo esterno viene vissuto anche dalla maggioranza degli esseri umani come una realtà oggettiva, data e quasi “naturale”.

    Cosa significhi, invece, la propensione per il mondo interno – mondo intangibile, sfuggente, caotico (tanto più se si prende atto che gran parte dell’attività mentale si realizza a livello inconscio) – è più difficile da definire. Cercherò di aggirare il problema con un esempio, che pone in luce un aspetto comune a tutti gli introversi.

    Qualche tempo fa, una madre – mia ex-paziente – è venuta a parlarmi del figlio che essa ha riconosciuto come introverso. Si tratta di un bambino di eccellenti qualità, benvoluto dai compagni, che ha un ottimo rendimento scolastico. C’è solo un aspetto del suo comportamento che alcuni insegnanti ritengono negativo e viene costantemente citato nella sua scheda personale: l’avere spesso “la testa tra le nuvole”. È insomma distratto, e, anche se questo non incide minimamente sulle sue prestazioni, viene rilevato come un tratto comportamentale da correggere.

    La “distrazione”, di fatto, è un tratto comune a molti introversi. È facile capire che essa fa riferimento ad una difficoltà del soggetto di mantenere un contatto costante con il mondo esterno, e implica che egli è “attratto” da quello interno. Ma la “distrazione” non è correggibile, se non minimamente, perché essa si realizza del tutto indipendentemente dalla volontà del soggetto.

    Una parte della mente degli introversi, in larga misura inconscia, funziona su di un registro che non fa riferimento al mondo esterno. È come se essa fosse costantemente polarizzata da un flusso di pensieri, emozioni, fantasie, immaginazioni, ecc. che hanno poco a che vedere con la realtà esterna immediata.
    A differenza degli estroversi, che sono in genere “catturati” dal mondo esterno, gli introversi sono “catturati”, senza volerlo e spesso senza saperlo, dal mondo interno, o meglio da quel flusso continuo di contenuti psichici per definire il quale, sia pure imprecisamente, non sembra azzardato utilizzare il termine rêverie. Una parte della mente introversa è continuamente impegnata in un sogno ad occhi aperti, vale a dire in un’elaborazione della realtà ricca di componenti emozionali, simboliche e fantastiche, irriducibile al realismo imposto dal mondo esterno.
    Si tratta di un aspetto strutturale del funzionamento della mente introversa, la cui matrice è senz’altro biologica.

    Il significato di questo aspetto, che immediatamente e visto dall’esterno (come nel caso del bambino in questione) può apparire disfunzionale, è complesso. L’ipotesi più semplice è che esso corrisponda all’esigenza di elaborare le informazioni di cui il soggetto dispone, a livello conscio e inconscio, secondo modi che si sottraggono al realismo imposto dal mondo esterno. Tale esigenza, che si realizza di solito, all’insaputa del soggetto, implica un’incessante esplorazione dell’universo simbolico, infinitamente più ricco del mondo reale.
    Quando quest’esplorazione, attraverso l’oggettivazione letteraria, artistica o filosofica, dà luogo alla creazione di un mondo immaginario (per esempio ad un romanzo popolato di personaggi che non esistono nella realtà, ma sembrano vivi e veri), il significato di quell’attività appare del tutto chiaro. Gran parte degli introversi, però, non hanno la capacità di oggettivare il lavorio della parte della loro mente “distratta” rispetto alla realtà.
    La “distrazione” è, in breve, un indizio comportamentale apparentemente negativo di una polarizzazione funzionale della mente introversa altamente significativa.»

    Definirei questa polarizzazione iperadattiva, nel senso che essa trascende il mondo oggettivo e spazia nell’ambito dell’universo simbolico.
    La parte della mente introversa “distratta” è attratta in maniera specifica da questo universo.

    fonte: www.legaintroversi.it/2012/03/25/li...do-di-essere/2/

    Per quanto riguarda però l'incapacità ad imprgnarsi con costanza e a portare a termine qualsiasi cosa (o molte cose), trattasi di claustrofobia, probabilmente, almeno nell'ottica strutturaldialettica:

    Copio un frammento anche qui:

    3. Il codice claustrofobico

    Se il mito gerarchico ha segnato la storia dell’umanità, configurandola come storia di schiavitù, servaggi e sottomissioni, l’aspirazione alla libertà deve avere sempre animato, sotterraneamente, i cuori umani. Ma il tradursi di questa aspirazione in un codice claustrofobico, che identifica la libertà con l’affrancamento da ogni legame e da ogni costrizione, è di data recente. La scoperta di questo codice, sia pure inconsapevole, la si deve a Freud. Questi, esplorando gli universi soggettivi come pareti di caverne sulle quali vede riflettersi fantasmi di cui non può cogliere il nesso con le strutture sociali e mentali della realtà che in essa, con la mediazione del soggetto, si riflettono amplificandosi, coglie in quei fantasmi la prova della asocialità e amoralità della natura umana. A posteriori, tenendo conto del contesto storico ancora impregnato di conservatorismo gerarchico, è agevole vedere in essi l’espressione di un bisogno di individuazione alienato, costretto ad esprimersi nella forma del rifiuto e dell’attacco ad ogni vincolo coercitivo, sia pure esso di natura affettiva.

    II fraintendimento di Freud è dovuto al fatto che questo codice si definisce in un contesto di civiltà che ormai da circa un secolo ha riconosciuto formalmente la libertà individuale come attributo e diritto proprio di ogni essere umano.

    A metà del sec. XVIII, Rousseau (2) aveva preconizzato il dramma della scissione tra esigenza sociale e natura umana, sostenendo che produrre un cittadino e produrre un uomo sono processi antitetici, sì che si sarebbe dovuto incidere in un senso o nell’altro, essendo le due cose incompatibili.

    Nei Manoscritti del ‘44 Marx (3) documenta il prezzo pagato alla produzione del cittadino borghese dal proletariato, che rappresenta una nuova forma di schiavitù:

    «...l’uomo (l’operaio) si sente libero solo nelle sue funzioni animali, come il mangiare, il bere, il procreare, e tutt’al più l’abitare una casa e il vestirsi; e invece si sente nulla più che una bestia nelle sue funzioni umane (cioè il lavoro). Ciò che è animale diventa umano, e ciò che è umano diventa animale».

    In virtù del suo osservatorio particolare, Freud scopre qualcosa di più drammatico: la trasformazione dei bisogni di libertà in pulsioni anarchiche nel cuore stesso del cittadino borghese. E non si tratta di una scoperta riducibile nell’ambito psicopatologico, o a un contesto conservatore. Ne Il disagio della civiltà, Freud infatti la estende all’intera società europea, individuando negli eccessi della civilizzazione borghese la causa di un malessere psicologico diffuso. Il prezzo di questi eccessi, che tendono, peraltro, a cooptare tutte le classi sociali, è la dissociazione tra comportamento sociale ed esperienza interiore: più il primo sembra conformarsi ad un modello di “urbanità”, più la seconda si anima di convulse fantasie anarchiche, che attestano la pressione di un desiderio di libertà avverso ad ogni convenzione sociale e ad ogni legame affettivo.

    Quest’ultimo aspetto sgomenta Freud. Che l’uomo, con la sua natura pulsionale, mal si adatti alle esigenze della vita sociale è, nella sua ottica conservatrice, un fatto ovvio; ma che la natura umana si ribelli anche al dolce gioco degli affetti privati, e li attacchi in nome di una cieca distruttività, appare a Freud mostruoso. Al punto che egli è costretto a riconoscere questa distruttività solo nella forma del parricidio fantastico, nonostante la sua esperienza lo ponga di fronte al fatto che, nei contesti familiari, la rabbia distruttiva può investire tutti i rapporti, e promuovere dunque fantasie di parricidio, matricidio, uxoricidio, figlicidio, fratricidio.

    Il codice claustrofobico è il codice di una libertà individuale in opposizione ad ogni forma di legame sociale: libertà dunque che postula l’attacco e la dissoluzione dei legami.

    Freud non può comprendere che non sono i legami interpersonali e sociali in sé e per sé ad essere odiati, ma ciò che in essi scorre: i sistemi di valori mortificanti, mistificanti, alienanti. Ma nessun altro, a dire il vero, sembra in grado di comprendere il dramma sociologico e psicologico di un bisogno di libertà che è esploso entro forme sociali e mentali che lo riconoscono solo in astratto, giuridicamente, ma di fatto lo soffocano, distorcendolo. Consiste in questo la crisi dell’ideologia liberale, che, mossa dall’intento di affrancare le potenzialità dell’individuo e della società nel suo complesso dalle costrizioni del mito gerarchico repressivo, rappresentato dallo stato e dalla chiesa, è giunta ad atomizzare l’individuo e a configurare una società civile all’interno della quale, sia a livello pubblico che privato, ciascuno si sente oppresso dall’altro.

    L’ideologia fascista muove dalla crisi della civiltà borghese, che rende l’individuo avverso ad ogni progetto di riforma sociale e, nel contempo, intimamente anarchico, e tenta di risolverla riabilitando un sistema di valori collettivi atto a porre la volontà di affermazione personale, incentivata al massimo, al servizio del corpo sociale, della nazione e dello stato. Ma questa soluzione, nonché risolverlo, sposta il problema: le nazioni che la adottano giungono a sentirsi costrette entro una camicia di forza di convenzioni formali, diplomatiche. Il codice claustrofobico, che sottende l’ideologia nazionalista, esplode nell’anarchia della politica di potenza, del razzismo e della guerra.

    Il sistema liberale, nel dopoguerra, non può non tener conto della crisi che ha minacciato la sua sopravvivenza. Ma, non potendo esso rinunciare all’opposizione tra libertà individuale e uguaglianza sociale, che rappresenta l’elemento dinamizzante la gerarchia sociale, l’individualismo va rilanciato inducendo un’ulteriore accentuazione claustrofobica dei legami sociali. Nonché repressa, l’aggressività viene assunta come un aspetto proprio della natura umana e autorizzata nella misura in cui essa viene devoluta a fini competitivi. In conseguenza di ciò, la moralità borghese viene riformulata e perde ogni residua connotazione religiosa. Il ceto dominante, scaricando sui ceti subalterni i valori tradizionali dell’autocontrollo emotivo e della frustrazione pulsionale, riabilita una teoria della élite che le consente di farsi promotrice di nuovi valori. Il rispetto dell’autorità viene soppiantato da una polemica antiburocraticista, che assume talora connotazioni di antistatalismo; la rispettabilità da un anticonformismo più o meno radicale incline alla sperimentazione di nuovi costumi morali; l’etica della rinuncia al piacere dall’edonismo. Ostentata senza pudore e propagandata dai massmedia, la teoria di un’élite, che sembra affrancata da ogni costrizione e irreversibilmente felice, incide nell’immaginario collettivo, schiacciando la società civile sotto il peso di un quotidiano, pubblico e privato, che non può non essere avvertito come penoso.

    Non è più, come ai tempi di Freud, la repressione pulsionale venuta apparentemente meno in conseguenza della valorizzazione dell’aggressività competitiva e della liberazione sessuale a generare disagio sociologicamente, bensì la proposizione di modelli di libertà irraggiungibili che, a livello individuale e collettivo, funzionano come miraggi atti ad alimentare una dinamica sociale orientandola verso il regno della libertà identificato con il paradiso artificiale dei V.I.P.

    Trattandosi, però, di un paradiso necessariamente riservato a pochi, non c’è da sorprendersi per il fatto che la diffusione del codice claustrofobico si traduca, negli altri, in sterili fantasie di liberazione dai pesi della vita. La psicopatologia contemporanea restituisce il codice claustrofobico nelle due versioni che esso ha sinora assunto. In alcune esperienze, tipicamente ossessive, esso si manifesta con la stessa fenomenologia descritta da Freud. Ma, in questi casi, la libertà, proprio perché si presenta con fantasie tali da evocare immediatamente la paura di un’esclusione radicale sociale, rimane inespressa sotto il profilo comportamentale, quando addirittura non dà luogo ad un aumento del controllo.

    In altre esperienze, che rientrano nell’ambito isterico, l’esplosione della libertà claustrofobica avviene dopo lunghi periodi di normalizzazione. A differenza del passato, quando esitavano rapidamente in disagio psichico, queste esperienze, grazie a nuove possibilità offerte dal sistema sociale, danno luogo a rivoluzioni private a vicolo cieco. Sollecitate da una incoercibile ansia di libertà, le persone attaccano tutti i legami con la realtà, separandosi dalla famiglia, abbandonando il lavoro, cambiando abitudini di vita. Si tratta di una vera muta, che, prima o poi, dà luogo a crisi psicopatologiche, di solito depressive, dovute sia ai sensi di colpa che alla delusione legata alla scoperta della difficoltà di realizzare un’autentica libertà al di là del movimento rivoluzionario di affrancamento dalle catene del quotidiano. Quando il codice claustrofobico si attiva precocemente, a livello giovanile, gli esiti possono essere diversi. Talora, esso si traduce in una rivoluzione passiva: i soggetti abbandonano la scuola, rifiutando ogni impegno costrittivo, come ad es. il lavoro, si ribellano ad ogni legame parentale e al senso del dovere, si votano ad un’inerzia spesso alimentata da sogni di onnipotenza. Talaltra, la rivoluzione imbocca direttamente il tunnel della trasgressione sistemica, sia nel contesto familiare che a livello sociale. Per qualche tempo, può sembrare che questi soggetti amino solo la “bella vita”: di fatto, via via che le esperienze progrediscono, risulta chiaro che esse sono animate da una sfida “viscerale” nei confronti dell’ordine esistente, vissuto come una universale prigione, che postula, in nome di una libertà astratta, la messa in gioco dell’identità personale e sociale, e talora della vita stessa.

    fonte: www.nilalienum.it/Sezioni/Opere/PDS.html

    Spero che queste letture ti siano d'aiuto, a me hanno aiutato tanto :)

    Salutoni
     
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  7. tandream
     
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    CITAZIONE
    Quest’ultimo aspetto sgomenta Freud. Che l’uomo, con la sua natura pulsionale, mal si adatti alle esigenze della vita sociale è, nella sua ottica conservatrice, un fatto ovvio; ma che la natura umana si ribelli anche al dolce gioco degli affetti privati, e li attacchi in nome di una cieca distruttività, appare a Freud mostruoso. Al punto che egli è costretto a riconoscere questa distruttività solo nella forma del parricidio fantastico, nonostante la sua esperienza lo ponga di fronte al fatto che, nei contesti familiari, la rabbia distruttiva può investire tutti i rapporti, e promuovere dunque fantasie di parricidio, matricidio, uxoricidio, figlicidio, fratricidio.

    Già. Perché ha tenuto conto dell'uomo solo in base alla visione patriarcale e capitalistica. Non ha mai pensato che la vera natura dell'uomo potesse essere diversa da quella a cui "è stato letteralmente costretto a vivere". Una vera e propria "gabbia" in cui alcuni tacciono e non fanno nulla per uscire, altri urlano a squarciagola fino anche ad uccidere...

    Le nostre stesse case, dove si vive in coppia, o in famiglia o anche da soli, sono le nostre stesse gabbie. Nessun codice genetico o dettame universale o naturale ci ha mai obbligati a vivere per forza in due stretti in unico letto dentro delle mura che non ci lasciano respirare senza la possibilità di incontrare mai veramente la natura e gli altri uomini e le donne! E' una gabbia. Ce la siamo costruita con la religione e le nostre leggi.

    Adesso ne vogliamo uscire. Adesso che anche le donne hanno sempre più diritti come gli uomini, adesso che sappiamo di vivere in una "trappola", vogliamo in tutti i modi fare a meno di questa "claustrofobia" che ci impedisce anche di concentrarci su quello che è più importante.

    Scusate il PICCOLO ot. :D
     
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  8. qualcosa91
     
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    Davide, sono letture illuminanti. Sono cose a cui ero arrivato, in forma diciamo abbozzata. E' evidente per me che la libertà non esiste in un sistema di leggi, anche seppure ben intenzionato. Ci tartassano di vincoli di continuo, nell'ambito sociale e privato. La libertà, beh credo stia, a livello sociale, più che sociale direi religioso, nel buddismo orientale. Certo, il buddismo è una religione e per questo ci sono certi vincoli, come la repressione dei desideri. Forse, questa repressione è atta ad evitare di sfociare in violenze, o ad inseguire i miraggi che la società e il sistema occidentale inseguono da un pezzo. Diciamoci la verità: stiamo andando verso l'oblìo. Non ci sopportiamo l'uno con l'altro, grida in strada, brutte occhiate. Quei miraggi in particolare ci colpiscono alla testa: abbiamo le nostre auto, case, moto e poi ci tocca lavorare e guadagnare sempre di più per avere sempre di più. Quando la raggiungiamo la libertà, poi? MAI. Più siamo "occidentalmente" liberi, più siamo costretti in una stretta stanza senza finestre, con l'aria pesante. Più andiamo verso questo miraggio, più soffochiamo. E' incredibile come nessuno si renda conto di questo attorno a me. Ne parlavo con mio padre l'altro giorno, ma lui da buon estroverso istituzionalizzato, sembrava non capire granchè. Facciamoci un bell'applauso uomini, siamo riusciti a schiavizzarci a vicenda senza che nessuno, da una parte e dall'altra, se ne sia reso conto. Non a caso, anche se non pienamente cosciente di questo fantamitico miraggio, ho sempre sognato di stare in mezzo a boschi, montagne, spiagge da solo e senza ragioni altrui. Sempre, da quando ho un minimo di coscienza e di rispetto verso la mia persona.
    Sapete che c'è? C'è che nemmeno l'idea dello studio mi colpisce granchè. Tremo all'idea di dover lavorare, lavorare in dei posti, costretto li dalla necessità mia e di altri, della collettività. Certo, anch'io ho bisogno di medici, supermercati e via discorrendo, ma l'idea, anche se razionalmente so che è un qualcosa di scorretto (non mi sembra corretto non contribuire al sistema e comportarmi da parassita che lo utilizza soltanto), non riesco a darmi pace.
     
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  9. tandream
     
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  10. davidedavidedavide.
     
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    Ciao :)

    È vero che lo studio istituzionalizzato è inquietante e ingabbiante, soprattutto agli inizi e vicino al termine.
    Però se una persona originale ed "eccezionale", nel senso che, essendo introversa, è un'eccezione, non studia, non prende un titolo, seppur minimo (triennale, corso para-universtario, o professionale post-diploma), non si costruisce un saper fare (che non dev'essere per forza stantio o "borghese", ma anche creativo, alternativo), fa il gioco del sistema, che sembra fatto apposta per escludere chi dissentisce, relegandolo nell'ambito dell'outsider (non a caso l'economista Von Hayeck, ributtante sostenitore del darwinismo sociale, al quale Monti si ispira, chiama la massa senza studio e saper fare "outsiders") e soprattutto non ha gli strumenti per incidere sulla società e su sé stesso, si fa fottere.

    Per le persone introverse trovare una strada e perseguirla è una fatica immane, un'impresa titanica, si potrebbe paragonare ad un ciclista non professionista che scala una salita abbastanza ripida, fatica e fatica ad avviarsi, fatica in salita e più sale più fatica, però nel frattempo si fa i muscoli delle gambe, si fa la circolazione, le ossa, e una volta che scala la fatica ed arriva in pianura, beh, è una sensazione impagabile :)
     
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  11. qualcosa91
     
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    @tandream: ti risponderò una volta visto il video.

    CITAZIONE (davidedavidedavide. @ 28/7/2012, 15:26) 
    ... Per le persone introverse trovare una strada e perseguirla è una fatica immane, un'impresa titanica, si potrebbe paragonare ad un ciclista non professionista che scala una salita abbastanza ripida, fatica e fatica ad avviarsi, fatica in salita e più sale più fatica, però nel frattempo si fa i muscoli delle gambe, si fa la circolazione, le ossa, e una volta che scala la fatica ed arriva in pianura, beh, è una sensazione impagabile :)

    Hai ragione, davvero ragione. L'importante è arrivarci. Guarda, molte volte la tensione è altissima, a volte in certe giornate mi sento perfino indebolire dall'ansia. L'introversione ha le sue croci, pone le sue croci su noi introversi. Comunque, non cambierei la mia condizione, mai, perchè sono così, sono nato così e quello che sono è ciò che mi caratterizza. Con la mia introversione, introversione che non riesco a concepire bene nemmeno io ancora, non credo di fare del male a nessuno, al massimo deludo qualche aspettativa. Via i sensi di colpa, che mi attanagliano e che, si, credo, CI attanagliano. Ho bisogno, abbiamo bisogno di stare un pò da soli durante tutte le giornate. Abbiamo bisogno di pensare, abbiamo bisogno di saperci presenti, di stare a contatto con ciò che abbiamo dentro. Abbiamo bisogno di ricercare verità. Abbiamo bisogno di volgere lo sguardo al cielo certe volte, e lasciarci andare all'infinito. E' un percorso immane, molto faticoso. Io sono stato fortunato a trovare voi, questo forum, ho avuta una bella fortuna. Non so se l'ho già detto, ma avevo già trovato tanti pezzi di me, solo che adesso li ho incollati insieme, grazie alla LIDI. Grazie alla LIDI, sono pure cresciuto e sto ancora crescendo. Stiamo ancora crescendo. Coraggio :) Per tutto questo, aggiungo, devo ringraziare la musica :)
    Adesso si soffre, per un domani incerto. Quel che è certo è che stare fermi, non porta da nessuna parte; la vita è un cammino, quindi credo che fermarsi sia contro natura.
     
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10 replies since 27/7/2012, 19:51   411 views
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