Costanza

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  1. houccisoilariadusieleièrisorta
     
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    CLAUSTROFOBIA!!!

    (adolescenza in crisi)
    www.nilalienum.it/Sezioni/Aggiornam...esc_crisi3.html

    (adolescenza maligna)
    http://www.nilalienum.it/Sezioni/Aggiornam...a/Adolmal1.html

    (codici mentali)
    fonte: www.nilalienum.it/Sezioni/AreeTematiche/Codmentali.html

    3. Libertà/costrizione. Il codice claustrofobico

    L’aspetto più inquietante del codice adultomorfo è che, pur originandosi da una visione della realtà umana che comporta un tentativo di eliminazione di alcune parti di essa ritenute meramente negative, ideologicamente esso si maschera di valori autentici e sembra offrire una risposta a bisogni radicali.

    I valori, come si è accennato, sono diversi, ma si aggregano tutti intorno alla libertà, l’indipendenza, l’autonomia. Il fantasma del bambino è, a livello immaginario, omologabile alla figura dello schiavo; in opposizione ad esso, l’uomo libero non può definirsi che come padrone di sé stesso e del suo destino. L’evoluzione dal bambino all’adulto, dal regno della necessità al regno della libertà, non viene concepita come una diversa configurazione dello stesso bisogno sociale, che definisce la schiavitù del bambino e, quando giunge a realizzarsi in virtù di scelte personali, la libertà dell’adulto, bensì come un superamento definitivo dei bisogni di cura, di protezione e di legame infantili in nome di bisogni adulti - l’indipendenza, la libertà, l’autonomia - il cui fattore univoco è la capacità dell’individuo di far da sé.

    In questo mito ideologico, traspare ancora, in maniera esasperata, un bisogno autentico, il bisogno di individuazione: ma traspare in forma alienata, come attributo individuale scisso dalla microstoria sociale e in opposizione al bisogno di socialità, che assume delle valenze persecutorie, poiché il suo riconoscimento, restituendo al soggetto il bisogno dell’altro come bisogno radicale, fa crollare quel mito o lo rende irrealizzabile.

    Autentico valore in sé e per sé, la libertà diventa vuota ideologia quando, anziché essere coltivata in opposizione ad ogni forma di costrizione e di oppressione dall’esterno, essa giunge a sentirsi minacciata dai bisogni di integrazione sociale, il cui carattere costrittivo è, in sé e per sé, naturale, poiché il loro misconoscimento, la negazione o la repressione promuovono non già l’identità individuale, ma l’angoscia della solitudine e dell’esclusione.

    Il bisogno di integrazione sociale è, dunque, un bisogno naturalmente costrittivo: ma, nella misura in cui le risposte ambientali giungono a farlo percepire come una minaccia - di sofferenza o di manipolazione, esso, pur persistendo, può diventare persecutorio, e promuovere tutta una serie di strategie miranti a liberarsi di esso.

    Tutto l’universo psicopatologico, come si è avuto occasione più volte di affermare, si incentra sul conflitto adialettico tra libertà individuale e legge. Ma, quali che siano le circostanze ambientali che lo hanno prodotto (ed è inutile insistere sul fatto che esse sono sempre ricostruibili) l’insolvibilità del conflitto si fonda sull’alienazione dei bisogni che lo anima, il bisogno di individuazione essendo giunto a configurarsi come bisogno anarchico di una libertà affrancata da ogni legame significativo, e il bisogno di integrazione sociale come una necessità esterna identificata o in rapporti interpersonali di potere o in norme, regole, valori privi di significato per l’individuo.

    Alla luce di quest’alienazione, la libertà viene a porsi solo come negativa, come capacità di affrancarsi o di far a meno dei legami, e mai come capacità di vincolarsi significativamente; e il bisogno di integrazione sociale come costrizione, oppressione, mortificazione dall ‘esterno.

    Esploreremo con cura le varie modalità in cui si manifesta, nelle esperienze di disagio psichico, questa alienazione dei bisogni fondamentali. E’ inutile anticipare che essa fa sempre capo ad interazioni con l’ambiente avvenute nel corso del processo di socializzazione. Non è affatto inutile, invece, insistere che, a questo, come ad ogni altro livello di discorso sulla genesi del disagio psichico, il piano puramente psicologico - soggettivo, intersoggettivo, relazionale - se basta a comprendere i presupposti da cui muove un’esperienza psicopatologica, non basta a comprenderne l’attualizzazione né la struttura.

    Il precipitarsi di un’esperienza in un vicolo cieco psicopatologico è imprescindibile da una progettualità che, nell’ imbocco di quel vicolo, vede la soluzione dei problemi residuati all’esperienza microstorica. Dobbiamo ammettere dunque che, nonché una determinazione causale, l’esperienza di disagio psichico si strutturi in virtù di un miraggio ideologico.

    E’ agevole definire, da questo punto di vista, il codice in questione: esso postula la possibilità di liberarsi da costrizioni naturali, dalla schiavitù dei bisogni di integrazione sociale, vissuta come una minaccia alla libertà individuale, in nome di una individuazione che va perseguita sino all’autosufficienza. Condizione, questa, ritenuta preliminare, perché l’individuo possa aprirsi alla relazione con gli altri senza incorrere nel pericolo della dipendenza.

    La logica di questo codice vede nell’individualità la condizione sine qua non della libertà, e di una socialità perseguita a partire da una posizione di forza: supplementare e complementare, dunque, rispetto alla personalità, che ha il centro di gravità dentro di se.

    La matrice storica di questo codice, e il suo significato funzionale all’interno del sistema sociale occidentale, sono ricostruibili con precisione, fermo restando che, per limiti di competenza, il nostro discorso non può essere che approssimativo.

    Libertà umana e dignità dell’individuo sono le due facce di una stessa medaglia, coniata con l’avvento della borghesia e con l’avvio della civiltà industriale. Medaglia - letteralmente - ipocrita poiché la sua patina dorata, che sembra veicolare valori autentici, nasconde un’ideologia grezza: la libertà in questione, infatti, è riferita non alla natura umana, bensì alle esigenze di un sistema produttivo che, affrancato da vincoli anacronistici e parassitari, e usufruendo dunque di un libero mercato, può mirare a svilupparsi, facendosi carico, in nome degli interessi immediati dei ceti dominanti, del sogno secolare dell’umanità di affrancarsi dal bisogno inteso come miseria.

    La dignità umana, affermata di diritto, viene negata di fatto, poiché la maggioranza degli uomini, per partecipare alla costruzione dell’utopia, deve entrare nel sistema industriale, secondo leggi che si pretende siano imposte dalla realtà.

    La degradazione umana e sociale che segna, nel corso dell’ ‘800, lo sviluppo industriale è stata analizzata da Marx con una profondità che richiede una lettura diretta. Ciò che a noi interessa più da vicino sono i presupposti antropologici che sottendono quello sviluppo, e che Marx ha identificato nel l’assunzione dell’individuo autonomo e padrone del suo destino come ente che preesiste alla società, sicché questa si riduce ad essere null’altro che una somma di individui, costretti a competere e ad interagire, ciascuno proseguendo ciecamente il fine della soddisfazione dei propri bisogni personali.

    Alla luce di questi presupposti, la libertà e la dignità individuali non servono ad altro che ad allentare e a rendere persecutori i legami comunitari e sociali, e ad avviare un processo di universale individuazione fondato sul principio della lotta per la sopravvivenza e per la felicità personale.

    In altri termini, fin dalle origini della civiltà industriale, la libertà individuale viene a porsi in opposizione con la socialità. La tensione che ne risulta, e che fa dell’altro un potenziale nemico, viene attenuata solo da regole che formalizzano i rapporti, svuotandoli di significato - la regola aurea, da questo punto di vista, è quella in virtù della quale il confine della libertà individuale è seguito dal rispetto della libertà dell’altro - e della definizione di uno spazio privato familiare all’interno del quale l’altro viene riconosciuto come oggetto d’amore.

    Questa scissione dell’universo sociale in due ambiti, l’uno - quello pubblico - sostanzialmente persecutorio e sottoposto a rigide regole formali, l’altro - il privato familiare - aperto all’espressione dei bisogni di socialità in termini di investimenti affettivi, non poteva reggere all’infinito alla spinta di un processo sociale e culturale di individuazione, il cui intento originario era di rendere l’uomo schiavo del bisogno di cose - produttore e consumatore - per indurlo a partecipare all’utopia di uno sviluppo il cui obiettivo era - e rimane - l’affrancamento da quel bisogno.

    Quel processo postula infatti, un progressivo allentamento e svuotamento dei legami sociali significativi, necessario e funzionale al fine di sostituire il bisogno radicale di socialità, dell’altro, con il bisogno di cose. Di questo processo, si possono definire alcuni momenti di fondamentale importanza ai fini del nostro discorso: l’urbanizzazione, la nuclearizzazione della famiglia, l’estraneazione dell’uomo dagli impegni familiari in conseguenza di un totale assorbimento nella produzione economica, la frustrazione delle casalinghe e l’inserimento della donna nel mondo del lavoro extradomestico, la sempre più precoce istituzionalizzazione - a tempo pieno - dei bambini.

    Ognuno di questi momenti - attivati dall’utopia della libertà dal bisogno e dall’indipendenza - ha avuto e continua ad avere i suoi riflessi devastanti proprio in quello spazio - il privato familiare - che, nel progetto originario, doveva rimanere libero da conflitti: unico spazio disponibile per investimenti affettivi, dacché la socialità pubblica si è definita come persecutoria. Tutti quei momenti corrispondono a bisogni reali di libertà e di indipendenza, che, però, anziché tradursi in una riorganizzazione della vita sociale e familiare a misura dei bisogni umani, vengono ad essere falsati dal bisogno onnivoro di disporre del proprio tempo a fini produttivi. Ciò che la società sembra essersi dimenticato letteralmente è che, oltre ai beni materiali, anche gli uomini si producono: e che il processo di produzione di un uomo libero - sia esso affidato alla famiglia, alle istituzioni pedagogiche o sociali - richiede un tempo infinito, apparentemente improduttivo.

    Rifiutati come bisogni radicalmente umani, come bisogni di socialità significativa, i bisogni di dipendenza sono venuti a ricadere sull’infanzia, che li veicola drammaticamente, dando luogo ad un rifiuto di cui non siamo ancora in grado di cogliere l’entità. L’indice di questo rifiuto è il calo della natalità, fenomeno che investe tutti i paesi occidentali, e il cui significato, come spia di un mondo che si va organizzando su un modello adultomorfo, è difficile sottovalutare.

    Ma il problema dei bisogni di dipendenza infantili - vissuti come una minaccia alla libertà degli adulti e come una minaccia alla possibilità dei bambini di diventare indipendenti - investe ovviamente coloro che sono nati. I quali si trovano esposti ad una situazione paradossale: in conseguenza di una percezione persecutoria dei bisogni di dipendenza che essi veicolano, la loro individuazione viene perseguita secondo due modelli estremi, tra cui si pone un continuum.

    Il primo modello pedagogico comporta l’accelerazione dei ritmi di sviluppo in nome di modelli normativi che vedono nel bambino indipendente e capace di far da sé una sorta di prefigurazione del futuro uomo indipendente; il secondo modello, all’opposto, postula che lo sviluppo possa avvenire solo in virtù di una soddisfazione così ampia dei bisogni di dipendenza che essi possano estinguersi per sazietà, dando luogo magicamente all’avvento dell’individuo maturo e padrone di sé.

    Questi modelli, accomunati dalla percezione persecutoria dei bisogni infantili come bisogni che devono morire perché nasca l’individuo autonomo, circolano sotterraneamente nella nostra società, fanno parte di un quadro mentale che postula un salto qualitativo dal bambino all’adulto. Ma essi non sono adottati casualmente: il più spesso, coincidono con l’organizzazione della famiglia e con la disponibilità di tempo degli adulti. In ogni caso, essi producono un effetto univoco: i bisogni di dipendenza infantili, siano essi frustrati o manipolati, danno luogo ad un vissuto persecutorio, per cui nel corso della crescita i soggetti sono sollecitati a liberarsene, o per non soffrire più o per affermare la propria individualità.

    L’alienazione dei bisogni di socialità, costitutiva della società occidentale, filtra così nei processi di produzione degli uomini, e ne orienta alcuni a perseguire astrattamente la propria libertà individuale in opposizione ai legami significativi. Da questo punto di vista, il disagio psichico è la punta di un iceberg, il cui corpo è rappresentato da un codice mentale che vede nei bisogni sociali, identificati come bisogni di dipendenza, costrizioni da cui affrancarsi per diventare liberi. In virtù di un paradosso che ormai è noto, sono proprio coloro che, in conseguenza dell’esperienza evolutiva, veicolano quei bisogni in forma intensa, ad essere sollecitati, piuttosto che a farsene carico e a soddisfarli, a liberarsene. L’esito univoco di questo inganno ideologico è di finire in un vicolo cieco psicopatologico, del quale dovremo considerare ora gli effetti molteplici secondo un gradiente segnato dal radicalismo del progetto liberatorio.

    Partiremo, dunque, dalla superficie, e cioè da esperienze nelle quali il bisogno di socialità si aliena secondo forme che appaiono abbastanza normali, coincidendo esse con forme proprie della società, e procederemo in profondità, analizzando esperienze nelle quali l’alienazione, pur essendo promossa dalle stesse forme, sembra giungere a negarle.

    L’alienazione del bisogno di socialità in bisogno di consumo, e quindi immediatamente di denaro o di prodotti, è un tema sul quale la critica sociologica ha insistito da molto tempo. L’espressione contemporanea più drammatica di questa alienazione è la tossicodipendenza, che va interpretata però come un continuum di un’esperienza che muove dall’alcool e passa attraverso gli analgesici, i tranquillanti e le droghe leggere. Dato che in questi casi la libertà dal bisogno dell’altro si pone come libertà dal dolore interiore, ci si soffermerà su di essi ulteriormente.

    Ci interesseremo, qui, pertanto, di esperienze più sfumate, ma non meno significative.

    Cristina ha 33 anni, lavora come funzionaria presso un ente parastatale, e sposata ed ha un figlio di 6 anni. Da due anni, lamenta delle crisi di angoscia repentine caratterizzate da un malore che la blocca a letto in uno stato d’inerzia completa associato alla paura di morire. L’insorgenza delle crisi è avvenuta in rapporto ad una circostanza specifica: la donna che, da anni, accudiva la casa, preparava il pranzo e si dedicava al bambino, si è licenziata. Per alcuni giorni, dopo il licenziamento, Cristina si è sentita liberata da un peso: in conseguenza di una lunga familiarità, quella donna infatti spadroneggiava. Poi, sono insorte le crisi, che hanno alterato gli equilibri familiari.

    Il marito di Cristina è un uomo pieno di impegni lavorativi, culturali e politici: le crisi della moglie lo hanno letteralmente risucchiato. Solo quando egli è in casa, Cristina non ha paura di star male, poiché sa che, in ogni caso, c’è chi pensa al bambino. La costrizione che impone al marito, insomma, rende libera Cristina. Ma c’è di più: dacché sta male, Cristina rifiuta ogni rapporto intimo con il marito, ed ha un atteggiamento assolutamente intollerante nei confronti del bambino. Si giudica una cattiva moglie ed una pessima madre.

    Ma i veri problemi stanno altrove. Cristina, educata - è inutile dirlo - secondo la più rigida tradizione in una famiglia numerosa e disagiata economicamente, che non poteva menare altro vanto che l’onore delle figlie, ha sempre avvertito un bisogno che essa definisce nevrotico di libertà: il giudizio sottolinea un’esigenza fine a se stessa. Cristina non tollera alcuna costrizione, ma, nel contempo, non utilizza in alcun modo la libertà. Non frequenta né amici né amiche, non ha interessi al di là della famiglia e del lavoro, è tremendamente timida, arrossisce per un nonnulla e rifugge da ogni occasione di interazione sociale. Questa rigidità, che la vincola allo spazio familiare, è riferita da Cristina alla paura di sbandare, di innammorarsi di qualcuno e di venir meno all’obbligo della fedeltà.

    L’ipercontrollo morale cede solo in una direzione: ogni giorno, dacché lavora, Cristina deve uscire dall’ufficio e andare in giro per i negozi per regalarsi qualcosa. Acquista spesso merci di cui non sa che fare: ma, nonostante un costante autorimprovero per queste spese pazze che assorbono la metà dello stipendio, non può trattenersi. E’ l’atto dell’acquisto che la fa felice, non ciò che acquista. Il possesso, ovviamente, le è del tutto indifferente. Dacché sta male, questo bisogno si è incrementato paurosamente. Nonché cattiva moglie e pessima madre, Cristina si giudica radicalmente egoista: tutto il suo guadagno, infatti, è sperperato per soddisfare i suoi bisogni. Cristina interpreta questo comportamento - che definisce una droga - riferendolo alla condizione di disagio socioeconomico vissuto nella famiglia originaria. C’e ovviamente del vero.

    Ma, nella trama della sua esperienza, incide ancora di più una miseria educativa, che, per difendere il suo onore, l’ha praticamente isolata dal mondo, inducendola a precipitarsi nel matrimonio. In questo, nonostante l’atteggiamento aperto del marito, Cristina ha continuato a coltivare quel valore, reprimendo del tutto il suo bisogno di socialità: nevroticamente libera per un verso, e cioè incapace di accettare e vivere le costrizioni dei suoi ruoli, essa, per un altro, è rimasta schiava della paura di aprirsi ad un contatto significativo con il mondo, vedendo in esso la possibilità di una perdita di controllo sentimentale e sessuale. Quel bisogno, alienato, si è tradotto in un rifiuto dei legami familiari e in una mercificazione del rapporto con il mondo. Nonché un insieme di possibilità relazionali, per Cristina, il mondo è null’altro che un mercato: e la gioia dell’acquisto, nella sua fatuità, tenta di esaurire vanamente il bisogno di un libero scambio.

    Ad un livello ancora di superficie, il bisogno di socialità può alienarsi nella sicurezza economica, nella proprietà, nel lavoro, nel denaro: strumenti tutti in cui l’individuo può individuare la liberazione da quel bisogno, inteso come minaccia legata ad una condizione di miseria. In questo caso, è la confusione tra la condizione sociale e precarietà della condizione umana a precipitare inaspettatamente nella sofferenza.

    A 42 anni, Lorenzo sembra aver realizzato le sue aspirazioni borghesi: è un alto funzionario di banca, ha una casa prestigiosa, una moglie efficiente e due figli senza problemi. Ha conseguito da poco una laurea in legge, e progetta, raggiunto il minimo di pensione, di dedicarsi ad una libera attività professionale. A ciò Lorenzo è pervenuto anche in virtù della minaccia di frustrazioni antiche.

    La sua famiglia originaria era disagiata, e Lorenzo ha conosciuto la fame. Ha dimenticato un vissuto cronico di abbandono, dovuto al fatto che i suoi reagivano al disagio in una maniera singolare: spendendo per sé il poco che guadagnavano, indifferenti ai bisogni dei figli. Essi facevano parte di un gruppo associativo molto diffuso come istituzione a livello popolare, fino agli anni ‘60: un gruppo spontaneo di amici che versavano ciascuno una quota mensile, che veniva amministrata da un cassiere per organizzare modeste feste, uscite fuori porta, balli, ecc. Il gruppo si incontrava praticamente ogni sera in una modesta trattoria, ove si passava il tempo a chiacchierare, consumando bruschette, supplì e vino.

    Lorenzo ha pagato la socialità dei suoi in termini di solitudine e di dolore, ripiegandosi nello studio e alimentando, nel corso degli anni, un progetto incentrato su valori opposti rispetto a quelli dei suoi: il lavoro, la famiglia, la sicurezza economica, l’avvenire dei figli.

    Ciò che egli non ha considerato è il carattere di estraneazione rispetto non solo alla socialità ma anche agli affetti che ha assunto il lavoro. Vissuto come strumento di liberazione dal bisogno, esso ha finito per assumere il significato di una droga.

    In realtà, al di là della sicurezza economica, nel lavoro Lorenzo soddisfa i suoi bisogni profondi di essere apprezzato: ma, rivolgendosi questi bisogni ai superiori, egli ha assunto, agli occhi dei dipendenti, la fama di essere un tedesco. La responsabilità del ruolo che ricopre è, del resto, tale che egli non può permettersi di sbagliare: un errore significherebbe, infatti, la catastrofe personale. Nonché strumento di liberazione, il lavoro è dunque una trappola, che comporta un dispendio di energie tali da azzerare ogni altro investimento relazionale, sia familiare che extrafamiliare.

    La crisi insorge quando Lorenzo scopre che la sua dedizione al lavoro lo ha reso un estraneo in famiglia. I segni premonitori della crisi sono onirici. In un sogno Lorenzo si vede nel salotto di casa, solo, in poltrona, fasciato dal calore del camino acceso: ma, poco dopo, avverte strani fruscii nel muro tappezzato di stoffe. Appoggia l’orecchio e intuisce che, nell’intercapedine, scorre dell’acqua: il muro è, dunque, marcio e prossimo al crollo. In un altro sogno, si trova su di una macchina che, pur procedendo su di un ponte rettilineo, tende a sbandare sotto le sue mani e a dirigersi verso il precipizio.

    La crisi affiora quando la moglie gli comunica di non provare più nulla per lui, e, quasi aprendo gli occhi, scopre che i figli lo vivono come “colui che porta i soldi a casa”. Lorenzo precipita nella disperazione di essere solo al mondo. Repentinamente, è preda di paure ipocondriache, che lo assoggettano ad infinite consultazioni mediche. Subisce un intervento per una minuscola cisti tiroidea, ritenuta da un chirurgo causa di tutti i suoi mali. Ovviamente, i disturbi persistono e danno man mano luogo ad una depressione sempre più profonda.

    Paradossalmente, mentre la depressione rende Lorenzo sempre più estraneo alla vita familiare, il suo rendimento lavorativo rimane immutato. Il fatto è che, in Lorenzo, il lavoro è giunto ad assorbire tutti i suoi bisogni di socialità. Quasi folgorato da una repentina intuizione, egli giunge a pensare che ciò che gli manca non è la sicurezza economica, ma un rapporto significativo con gli altri. Questa intuizione ricade però in una forma ideologica: quella dell’amore duale.

    Lorenzo avvia una relazione con una collega d’ufficio, e giunge a progettare l’abbandono della famiglia e del lavoro, e un cambiamento radicale di vita. Ma, nel periodo in cui è vicino a prendere decisioni di somma importanza, i disturbi psicosomatici aumentano a tal punto da indurlo ad una precipitosa marcia indietro. Lorenzo prosegue a lavorare come un automa e a trascorrere il tempo libero inerte nel salotto della villa. La sicurezza raggiunta, meramente materiale, che lo ha isolato dagli affetti familiari ed estraniato rispetto ad ogni forma di socialità significativa - eccezion fatta per i rapporti gratificanti con i superiori - è ormai una gabbia, un bozzolo soffocante entro il quale i bisogni di socialità di Lorenzo soffocano, affiorando solo sotto forma di sintomi ipocondriaci, dai quali egli vorrebbe essere liberato.

    A un livello ancora di superficie, l’alienazione del bisogno di integrazione sociale può esprimersi, nella trama di esperienze giovanili, in virtù di una dedizione totale allo studio, vissuto, o per senso del dovere o per ambizione, come strumento univoco di un futuro inserimento sociale, che richiede, di fatto, la sospensione o il rimando di ogni pratica sociale. Gran parte dei disagi che insorgono caratteristicamente nel passaggio dalle scuole ordinarie - che permettono di mantenere sotto controllo la pressione dei bisogni sociali vuoi per l’impegno quotidiano vuoi per la gratificazione di un ruolo fisso microsocietario (quello di primo della classe) - all’università o dagli insabbiamenti che avvengono nei primi anni di studi universitari, sono riconducibili ad una distorsione del significato dello studio.

    Abbiamo analizzato già l’esperienza di Rita. Nel materiale precedentemente elaborato, numerose esperienze, e in particolare quella di Paolo, potrebbero essere rilette da questo nuovo punto di vista.

    Ne riportiamo una nuova, la cui trasparenza è rilevante. Enza è la terza figlia di un medico condotto, che, pur avendo accumulato una vera fortuna, è rimasto gravato di una sorda (e ricorrente, per la categoria...) frustrazione, riferita a originarie ambizioni di carriera universitaria.

    Nel piccolo centro in cui risiede, la famiglia di Enza è una delle famiglie in luce: e ciò basta a giustificare l’ansia dei genitori per un comportamento socialmente conveniente della figlia, che ha indotto un certo isolamento ambientale. Enza, da questo punto di vista, non ha dato mai problemi: ha studiato sempre con un rendimento eccellente, ma non ha mai manifestato irrequietezze, né espresso bisogni inopportuni di socialità. Anzi, nelle poche occasioni che le si sono offerte, ha manifestato una verginale timidezza e una manifesta ritrosia nei confronti dei ragazzi.

    Il suo progetto di vita è estremamente impegnativo: Enza intende laurearsi, dopo il liceo, in lettere antiche e dedicarsi alla carriera universitaria. All’inizio dell’ultimo anno di liceo, i genitori cominciano a nutrire qualche preoccupazione per il modo di vivere della figlia troppo chiusa: ma la preoccupazione riguarda solo le capacità di Enza di andare a vivere da sola nella città già prescelta per gli studi universitari.

    Questa preoccupazione si avvera con anticipo. Un giorno, mentre è a scuola, e segue con attenzione la lezione di greco (l’insegnante di lettere è, ovviamente, il suo modello ..), Enza avverte violenti dolori addominali che si associano alla paura di un’incontenibile scarica intestinale. La crisi di angoscia somatizzata esita in un malore.

    La vita di Enza cambia radicalmente: rifiuta di andare a scuola per il terrore di sporcarsi con le feci e di star male agli occhi degli altri. Costretta contro la sua volontà dai genitori, che pensano trattarsi di un capriccio, scopre che la paura si attiva in occasione della lezione di lettere. Un periodo di riposo a casa non vale a nulla. Enza, anzi, scopre che i disturbi insorgono ogni qualvolta pone mano ai libri. Comincia a trascorrere il tempo sfogliando riviste femminili, che non ha mai letto e ascoltando musica leggera. Cerca di distrarsi uscendo con una compagnia di amici della sorella, che non ha mai frequentato: ma scopre che il contatto con i ragazzi suscita in lei un vergognoso turbamento, che si traduce in angoscia. Si blocca in casa, e regredisce paurosamente, pencolando tutto il giorno tra la camera da letto e il divano del salotto.

    Estremamente dotata sotto un profilo introspettivo, Enza sa qual’e il problema: un blocco relazionale, soprattutto sotto il profilo sentimentale, che essa vive come un ostacolo insormontabile. Alla luce di questa consapevolezza, il progetto di vita elaborato in precedenza risulta svuotato di significato. Che senso avrebbe destinarsi a vivere come una talpa, accecarsi sui libri - come è accaduto alla sua professoressa - e diventare come lei: un essere sensibile che si commuove quando legge i lirici greci, ma che, nei rapporti umani, appare rigida, fredda e anafettiva?

    L’alternativa sarebbe quella di abbandonarsi ai sentimenti, di vivere e di amare. Ma questo Enza non può farlo, poiché, per anni, ha vissuto i bisogni affettivi alla luce di un’insormontabile vergogna, e si è costruita differenziandosi dalle coetanee, come un essere autonomo, padrone di sé, indifferente alle leggerezze e agli svaghi. In rapporto a questo modello, l’affiorare dei bisogni radicali di integrazione sociale, nella forma propria della giovinezza, che è quella dell’amore, è vissuto come una minaccia di perdere la dignità e di apparire come non vorrebbe essere: bisognosa dell’altro.

    Paradossalmente, la forma più normale di alienazione del bisogno di socialità è, pero, il porsi di questo bisogno nei termini di una relazione duale d’amore vissuta in termini totalizzanti. Il discorso, a questo livello, diventa complesso, poiché si tratta di comprendere il paradosso in virtù del quale quel bisogno, esprimendosi nella forma più elevata, giunge a negarsi. Nei casi in cui ciò si realizza, la distorsione psicopatologica sembra rilevante: ma, di fatto, lo è meno di quanto appaia, se si tiene conto che la relazione duale d’amore è giunta, nel tempo, a sovraccaricarsi di significati compensatori rispetto ad una socialità vissuta in termini persecutori. Che questo sovraccarico animi la relazione d’amore di significati persecutori, e che il soggetto, calandosi in essa, manifesti il desiderio di mortificare l’ultima espressione del bisogno di socialità, non sorprende.

    Per illustrare questa dinamica, dovremo far riferimento ancora una volta all’esperienza di Mario. Per anni, Mario ha giustificato la sua rivolta anarchica contro il mondo - il rifiuto dello studio, del lavoro e di ogni regola - come espressione di un difetto d’amore. E’ sopravvissuto alle angosce dell’isolamento, puntando tutte le sue energie sul mito di una relazione duale che, soddisfacendo i suoi bisogni profondi, lo avrebbe infine riappacificato con il mondo.

    Dopo otto anni di crisi perpetue, la sorte sembra favorirlo: si innamora ed è ricambiato. Ma la ragazza con cui entra in rapporto ha una storia personale incentrata su valori opposti rispetto a quelli di Mario: si è separata precocemente dalla famiglia, destinandosi ad una vita di stenti economici, resa significativa da un lavoro di ricerca gratificante quanto poco remunerativo. E’ una ragazza indipendente che ha il culto del lavoro. Nel rapporto con Mario, che vuole piegarla ad una concezione della vita incentrata sull’amore, manifesta rapidamente un atteggiamento difensivo, una sorta di claustrofobia per un rapporto troppo coinvolgente e totalizzante. Mario reagisce a questo atteggiamento aumentando le sue richieste d’affetto; egli pensa che una risposta d’amore basterebbe a sedare la sua angoscia.

    Ma la verità del progetto che persegue è attestata da due fatti. Il primo è che, proprio nelle circostanze in cui la ragazza sembra abbandonare ogni difesa, partecipare interiormente al rapporto e confessare il suo amore, Mario ha delle crisi di depressione: diventa lamentoso e piagnucoloso, poiché non crede al suo amore sottopone la ragazza ad un vero e proprio interrogatorio, si blocca a casa sua incapace di abbandonarla. Manifesta, insomma, proprio in rapporto ad una risposta d’amore, una dipendenza che egli stesso definisce vergognosa, e la cui esibizione agli occhi della ragazza non potrà, a suo avviso, che produrre la fine del rapporto. Naturalmente, questa previsione, che porta in luce il modo in cui Mario vive i suoi bisogni d’affetto, viene delegata, nella realizzazione, alla ragazza.

    L’altro fatto inerisce i rapporti sessuali: Mario, che ha avuto in passato qualche dubbio sulla sua potenza, scopre di essere affetto da un’eiaculazione tanto ritardata dal non sopravvenire, in pratica, mai. Dopo un iniziale entusiasmo per la prestazione che riesce a fornire, intuisce che si tratta di un sintomo. E’ la ragazza che, con delicatezza, glie ne restituisce il senso: nonostante i suoi discorsi sull’amore totale, egli non riesce a lasciarsi andare, a prescindere dal modello dell’uomo potente che non cede mai. Ad un livello più profondo, la sessualità stessa può caricarsi di significati liberatori che rendono impossibile o procastrinano al massimo un legame significativo con l’altro.

    Foucault lo ha intuito: la liberazione sessuale, nonostante un autentico valore, è servita in gran parte a compensare ideologicamente una progressiva alienazione sociale, che rende i contatti interpersonali sempre più carichi di valenze persecutorie. L’incontrarsi liberamente con l’altro, a livello sessuale, può essere un modo per occultare una quota di bisogni di cui profondamente ci si vergogna.

    Questo tema è di così vasta portata che meriterebbe un discorso a parte. Per ora, ci si limiterà a esemplificarlo, alla luce del codice in questione.

    Gianna è la seconda figlia di una famiglia piccolo-borghese di origine meridionale. Educata nella più rigida tradizione, essa, fino a 20 anni, è timida, riservata e apparentemente indifferente alle sollecitazioni affettive. A 20 anni incontra un ragazzo e se innamora. Dopo due mesi, esce quasi casualmente con un altro ragazzo e, non appena questi le fa capire che la desidera, cede e fa l’amore con lui. Il tradimento la fa sentire indegna e, nonostante il suo ragazzo appaia disposto a perdonarla, lo abbandona.

    Si avvia cosi una singolare esperienza. Gianna non riesce più a tollerare la solitudine, ma, nel contempo, certa di essere per natura infedele, non vuole un legame stabile. Ogni volta che esce con un ragazzo, il sentirsi desiderata dà luogo ad un repentino cedimento. Solo per un anno, Gianna riesce a giustificare questo comportamento alla luce di un’ideologia libertaria. Poi il carattere costrittivo dell’esperienza le appare chiaro, poiché quel comportamento si realizza in maniera quasi automatica, prescindendo del tutto dal fatto che l’altro eserciti o no su di lei una qualche attrazione. Più di una volta, è disgustata dal dover far l’amore con persone che la ripugnano.

    Ciò che affiora dall’analisi di questa esperienza è di estremo interesse. Gianna ha un bisogno radicale di essere amata. Questo bisogno si esprime a molteplici livelli, ma sempre sotto una forma atta a negare la sua dipendenza: come una disponibilità totale alla quale non può non corrispondere una risposta in termini di gratitudine.

    Questa dinamica è evidente sia a livello familiare che nel lavoro e nelle amicizie: Gianna si prodiga per tutti, ed è profondamente stimata. Nel lavoro, delicato - rieducazione al linguaggio di bambini handicappati - e scelto per vocazione, Gianna dà il meglio di sé. Ma questo bisogno radicale di amore viene negato quando esso, all’interno di una relazione, postula di accettare la propria dipendenza dall’altro. Offrendosi, anche senza desiderio, come oggetto di consumo, Gianna soddisfa l’altro. Il suo cedimento ogni qualvolta sente di essere desiderata esprime in maniera evidente il suo bisogno. Ma esso mortifica ogni possibilità di relazione e di legame stabile: nonostante la soddisfazione che ne ricava, ogni partner, dopo averla usata, se ne allontana, talora con un atteggiamento di disgusto. Nessuno si lega a una donna di così facili costumi. Attraverso una infinita serie di rapporti, Gianna realizza, ad un prezzo elevato, il progetto di non star sola e di rimanere libera.

    All’interno di altre esperienze, la sessualità, che mira a mantenere la relazione con l’altro a livelli di superficie, non viene neppure avvertita come problema, poiché essa si integra in una concezione della vita che vede nella libertà, a tutti i livelli, il valore supremo. La costrizione ad essere liberi non viene percepita, finché una qualche circostanza non la restituisca traumaticamente al soggetto.

    Giorgio è figlio di due militanti comunisti, che dedicano all’attività politica gran parte del loro tempo libero. Essi hanno nei confronti dei figli un atteggiamento aperto e permissivo, che postula, però, da parte di quelli una continua risposta che confermi la validità del modello pedagogico e dei valori adottati: l’indipendenza, l’autonomia, l’anticonformismo.

    La bontà dei valori si integra con la necessità dei genitori di non sentirsi limitati e vincolati dai figli. Tra tutti, Giorgio è quello che sembra realizzare in maniera esemplare le aspirazioni parentali. Fin dall’età di 10-11 anni, riesce a stare in casa da solo e a provvedere a se stesso. A 13 anni comincia a partecipare, d’estate, a dei campeggi che lo tengono lontano dalla famiglia per due mesi, senza nessuna apparente difficoltà. E’ estremamente socievole e maturo per la sua età. A 15 anni si dà anch’egli alla militanza politica, su posizioni un po’ più estremiste rispetto ai suoi. Entra a far parte di un gruppo dell’autonomia operaia e si imbeve letteralmente di miti libertari.

    Rende bene a scuola, d’estate comincia a viaggiare per l’Europa con il sacco a pelo, ha infiniti amici ed amiche, pratica la sessualità libera senza problemi. La sua vita è inquieta ma non turbolenta, ispirata al principio di vivere intensamente e liberamente.

    A 20 anni, per la prima volta, si innamora di una ragazza che condivide i suoi stessi valori. Le regole del rapporto sono ovvie: rispetto dell’indipendenza e della libertà reciproca, nessuna chiusura sociale nel rapporto di coppia, nessun condizionamento. In conseguenza di queste regole, entrambi si impongono di non intrattenere rapporti sessuali finché non maturi la certezza dei reciproci sentimenti. Dopo qualche mese, l’ideologia del rapporto libero comincia a svelare i suoi limiti: via via che si innamora, Giorgio si chiude, diventa taciturno e scontroso, è perpetuamente arrabbiato, comincia a sentirsi geloso e possessivo, e pone in atto insidiose strategie che tendono ad instaurare un controllo sulla ragazza. Alla fine, decidono concordamente che il modo migliore per verificare il loro rapporto è far l’amore. Ed è a questo punto che scoppia il dramma: Giorgio, che non ha mai avuto problemi, scopre di essere divenuto impotente. La vergogna che lo investe determina un cambiamento radicale: egli tronca il rapporto e si chiude in casa, respingendo le sollecitazioni degli amici. Comincia a scrivere freneticamente un diario alla ricerca della verità: trascorre insonne le notti, rifiuta il cibo, maltratta i genitori. Infine, il suo comportamento giunge a configurarsi come strano (mai i genitori oserebbero dire malato): ha lo sguardo allucinato, esplode ogni tanto in crisi furibonde nel corso delle quali rompe ogni oggetto che ha a portata di mano, bofonchia parole incomprensibili, comincia a scrivere sui muri. Il messaggio, rivolto ai genitori, è drammatico: “Assassini, mi avete rovinato. Sono un uomo finito”. Lo è, di fatto, in rapporto ad un modello di libertà che esclude che questa si eserciti nella capacità di legame.

    Un’ulteriore forma alienata del bisogno di socialità, la cui apparenza è ancora normale, è quella che riproduce, aggiornandola, la dinamica del rapporto servo-padrone: formula che postula la schiavitù dell’altro come fondamento della propria libertà.

    La fenomenologia di questa forma investe molti ambiti della vita di relazione e delle strutture sociali. Gran parte dell’analisi transazionale ha per oggetto questa forma, così come essa si esercita a livello familiare, della quale però sfuggono tutte le valenze non psicologiche, che fanno capo al problema del potere e dei rapporti di potere. Ad un problema che investe, insomma, la storia della nostra civiltà, nella quale la libertà degli uni è stata sempre pagata al prezzo della schiavitù degli altri.

    L’esemplificazione di questa forma prescinderà, pertanto, da logori schemi familiari, utilizzando un’esperienza di significato molto più profondo.

    Ottava e unica figlia femmina di una famiglia di modeste condizioni, resa precaria dal numero dei componenti, Giovanna vive con intensa partecipazione il dramma della madre sfinita dai sacrifici, dalla dedizione ai lavori domestici e dall’assillo per i figli. Non appena raggiunge l’uso della ragione, il suo atto d’amore si esprime nel tentativo di pesare il meno possibile: mangia come un uccellino, non gioca per non sporcarsi i vestitini, si affanna a dare una mano in casa.

    Il sacrificio è inutile: la madre, precocemente invecchiata, muore quando Giovanna ha dieci anni. Il padre ed i fratelli, consapevoli delle sue capacità intellettuali, le consentono di frequentare, dalle medie in su, una scuola signorile privata. Giovanna scopre il peso delle differenze di classe sociale e reagisce primeggiando nello studio e sviluppando un atteggiamento, freddo, altezzoso e chiuso. Lentamente, matura in lei un progetto di riscatto sociale, che postula la frustrazione degli affetti e di ogni forma di svago. La sua inaccessibilità, in associazione alla bellezza, la rendono affascinante.

    Ma Giovanna, intimamente gratificata dai corteggiamenti, non pensa che allo studio: ha in mente un modello di vita signorile incentrato sulla dignità e sulla raffinatezza , valori che vede costantemente traditi da coloro che appartengono a classi agiate. Ma la dignità si esprime anche sotto forma di autocontrollo sui bisogni affettivi, vissuti sostanzialmente come indecorosi cedimenti.

    E’ nel primo anno di vita universitaria, che il rigido ipercontrollo che Giovanna si è imposta fin da bambina comincia a tradursi in un ostacolo: Giovanna comincia a soffrire di disturbi intestinali funzionali che si esprimono in repentine scariche diarroiche. Il sintomo, incoercibile ai medicamenti, limita la frequenza universitaria e, lentamente, la scarsa vita di relazione. Giovanna, in pratica, non può allontanarsi dall’ambiente domestico, ove ha la certezza della disponibilità del bagno.

    A 23 anni conosce in casa un giovane magistrato amico di uno dei fratelli, timido, dipendente, cronicamente depresso e affamato d’ amore. Giovanna lo sposa senza amarlo, esaltata dal bisogno di lei che egli manifesta, e si chiude, con i suoi bisogni insoddisfatti, in un’esistenza medio-borghese isolata e grigia. I disturbi intestinali la rendono schiava della casa: ma questa schiavitù induce una ribellione ai ruoli domestici: Giovanna è poco efficiente nel ruolo di moglie, di madre (ha un solo figlio) e di donna di casa.

    Un sogno ricorrente chiarisce questo modo di essere: in casa, si trova di fronte ad un uomo senza volto nei cui confronti avverte un amore intenso. Ma mentre quegli le si avvicina e tenta di abbracciarla, Giovanna avverte il bisogno di andare al bagno e si allontana repentinamente.

    E’ evidente che i disturbi intestinali esprimono la paura di repentini cedimenti sentimentali, e che essi servono a mettere Giovanna al riparo dalle sporche conseguenze che potrebbero derivarne. Altrettanto chiaro che la rigida corazza di dignità entro la quale Giovanna si è chiusa, impedendo ogni autentica esperienza di relazione, le impone un prezzo troppo elevato: la rinuncia alla realizzazione di sé sotto il profilo sociale, che non può essere compensata da ruoli che, nel ricordo dell’esperienza materna, Giovanna vive come frustranti e servili.

    Il progetto di vita originariamente formulato va dunque adattato a queste limitazioni. Giovanna si cala nel ruolo della signora che trascorre gran parte del suo tempo immersa in letture raffinate e fini a se stesse. La gestione domestica è affidata ad una donna a pieno servizio. La sua libertà, che, per essersi configurata come libertà dai bisogni affettivi, si declina regressivamente, postula la schiavitù di un’altra persona.

    Quest’equilibrio dura vent’anni, caratterizzato da lunghi periodi di depressione. In questi anni, il rapporto con la domestica è l’unico spazio di relazione intima che Giovanna si concede: la domestica finisce con il diventare la sua confidente, l’amica, l’infermiera.

    A 44 anni, quando la sua bellezza comincia appena a sfiorire, nel corso di una vacanza al mare, Giovanna cede per la prima volta ad un volgare play-boy stagionato. Per alcuni mesi è sconvolta dalla paura di aver contratto un’infezione venerea. In questo periodo, il rapporto con la domestica diventa teso: Giovanna si sente spiata e giudicata da essa. Intuisce di essersi fidata per troppo tempo di una persona malvagia. Apre, infine, gli occhi e scopre la verità: la domestica è una volgare ladra che, profittando della sua infermità, ha asportato dalla casa vestiti, oggetti di argenteria, utensili da cucina, gioielli e denaro. Giovanna la licenzia e rimane sola: per un certo periodo si sente liberata, ritorna efficiente e si sorprende di aver trascorso tanti anni in una penosa dipendenza.

    Poi, inaspettatamente, l’esperienza di Giovanna vira verso una modalità delirante. Esplorando la casa che ha sempre trascurato, essa scopre una serie infinita di segni - graffi, strappi, intagli, lacerazioni, ecc. - sulle pareti, sui mobili, i quadri, gli oggetti d’arredo, i vestiti, la biancheria, che attestano l’odio distruttivo della domestica nei suoi confronti, esercitatosi nel corso degli anni. Ma non basta: Giovanna comincia a pensare che la malvagia, non contenta dei danni fatti, alimenti un’inestinguibile sete di vendetta nei suoi confronti, e, profittando di sue sporadiche assenze, continui ad entrare in casa e a far danni. Nuovi segni confermano l’intuizione. Giovanna fa montare una porta corazzata, le grate alla finestra e decide di non allontanarsi più di casa neppure per un attimo.

    Le misure di sicurezza sono efficaci: la domestica non può far altro che tentare di danneggiare con un temperino la superficie esterna della porta di casa e tempestarla di squilli telefonici. La casa va in malora, ma Giovanna è finalmente felice: si sente libera e indipendente, chiusa nella sua fortezza ben munita, dalla quale non potrà più uscire. Per troppi anni riflette tra sé e sé - è stata schiava della sua ingenuità e dei suoi buoni sentimenti: ora, essendosi liberata del mostro, è divenuta finalmente padrona.

    Ma con la donna - incolpevole, a detta del marito, e sinceramente affezionata ai padroni, al figlio che ha cresciuto e alla casa - Giovanna si è affrancata dall’unica espressione dei suoi bisogni di relazione. L’equilibrio raggiunto da Giovanna non può durare. Il delirio persecutorio fiorisce nuovamente, ché porte corazzate e finestre sbarrate non contano contro gli spiriti maligni.

    Riguardo a questa esperienza, restituita in termini, forse, troppo sintetici, che ne mortificano la ricchezza, conviene fare alcune riflessioni teoriche. La libertà dal bisogno dell’altro è la chiave che la sottende dall’inizio alla fine, ma con uno slittamento di significati che rendono trasparente l’incidenza dei momenti sociali sulle esperienze soggettive.

    Originariamente, infatti, essa esprime un atto d’amore che, mortificando Giovanna, tenta di attenuare la penosa schiavitù della madre. Successivamente, dall’adolescenza in poi, il bisogno dell’altro entra in conflitto con la necessità di investire tutte le proprie energie nel progetto di affrancarsi da una condizione di disagio socioeconomico.

    La lunga frustrazione, che dà luogo all’organizzazione di una personalità ipercontrollata, che assume la dignità, intesa come autosufficienza, come valore fondamentale, induce un’esasperazione di quel bisogno, che regredisce trasformandosi nella minaccia di una perdita di controllo affettiva e istintuale.

    Questa minaccia, che costringe Giovanna a ritirarsi dalla vita sociale, la chiude in una trappola familiare, nella quale la libertà non può esprimersi che sotto forma di rifiuto dei ruoli tradizionali. Ma questo rifiuto postula che qualcuno si faccia carico di essi: la figura della schiava, da cui è mossa l’esperienza di Giovanna, ricompare nelle vesti della domestica. La libertà dalle relazioni e dai legami perseguita da Giovanna postula dunque una penosa dipendenza da una persona, mascherata dal fatto che, socialmente, è questa di fatto a dipendere.

    Il tradimento cui si abbandona Giovanna e che dà corpo alla minaccia di perdere la dignità contro cui essa ha sempre lottato, induce una ulteriore guerra di indipendenza che sconvolge il precario equilibrio durato da vent’anni. Rifiutando il rapporto con la domestica, Giovanna, senza sapere, attacca l’ unico legame in cui si è espresso il suo bisogno relazionale. E si destina all’estrema espressione di questo bisogno: la persecuzione.

    In questa esperienza sembra riecheggiare la scoperta di Marx: “l’uomo e un animale cosi radicalmente sociale che egli può isolarsi solo nella società”. Questo ci consente di capire che più il bisogno di socialità si aliena più l’esperienza tende a regredire verso una destrutturazione-ristrutturazione psicotica.

    Ogni esperienza psicotica può essere interpretata alla luce di un bisogno di libertà individuale che, ponendosi in opposizione al bisogno di socialità, costringe questo a proporsi in forma alienata. Nulla come questa chiave conferma che il corredo dei bisogni fondamentali è geneticamente determinato, e che, di conseguenza, la libertà umana postula una loro integrazione, poiché in nessun caso può prescindere da uno di essi. Se, alla luce di questo criterio, si ripercorrono le microstorie elaborate nel corso della ricerca, se ne troverà una continua conferma, soprattutto nelle esperienze psicotiche. Anziché aggiungere ulteriore materiale, ci pare opportuno riflettere su una di esse.

    Dopo ricoveri in clinica e cure farmacologiche, Massimo accetta di sottoporsi ad una psicoterapia. Sceglie un terapeuta ad indirizzo bioenergetico, poiché è convinto che il blocco che gli impedisce di raggiungere la realizzazione delle sue potenzialità, secondo un modello di totale indipendenza, è un blocco dell’aggressività. Dopo tre anni di trattamento, in effetti si blocca: litiga con il terapeuta e intrattiene con una ragazza un rapporto nel corso del quale si manifesta tanto prepotente e aggressivo da riuscire a farsi abbandonare. Prosegue da solo il suo cammino, ma regredendo lentamente verso una totale chiusura sociale. Si sente solo e incapace di contatto come prima, ma non vuole cedere al bisogno di cure che la sofferenza comporta.

    Si ostina a far da sé, finche, nell’ambiente di lavoro, comincia a cogliere i segni di uno strano interessamento nei suoi confronti. Nel giro di un mese, tutto è chiaro: c’è un gruppo di persone, operatori psichiatrici celati sotto le vesti di impiegati, che, coordinati dal terapeuta con il quale ha avuto rapporto, sta effettuando un intervento su di lui. Consci della sua totale incapacità di aprirsi alle comunicazioni, essi diffondono nell’aria una polvere che fa sì ch’essi possano leggere nella sua testa e comunicare con lui senza ostacolo. Dopo essersi sentito minacciato per alcuni giorni, Massimo è confortato: si tratta, sì, di una violazione arbitraria della sua libertà, l’intervento consistendo in una manipolazione della sua mente, ma il fine è terapeutico. Essi vogliono aiutare Massimo a uscire dall’isolamento e costringerlo a comunicare. Per gratitudine, Massimo giunge quasi al punto di aprirsi con loro e progetta di contattare il terapeuta. Ma è proprio allora che comincia ad avvertire una straordinaria inquietudine e i sintomi si accentuano, costringendolo ad un nuovo ricovero in clinica.

    In questa esperienza, l’affiorare del bisogno di relazione avviene sotto forma di persecuzione terapeutica: e Massimo, che continua ad essere convinto che la sua libertà non possa passare che attraverso l’eliminazione di quel bisogno, lo trasforma, dopo qualche esitazione, in bisogno di cure in senso tecnico. E, paradossalmente, si consegna agli psichiatri, che sa bene non avere altre intenzioni che di curare i sintomi, senza interferire nell’organizzazione della personalità e nel progetto di vita.


    Edited by houccisoilariadusieleièrisorta - 18/12/2012, 21:29
     
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  2. Franz86
     
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    Il tutto mi ricorda un po' l' ideale classico secondo il quale l' uomo dovrebbe seguire un percorso di autoconsapevolezza, conoscenza e realizzazione delle proprie possibilità destinato a durare la vita intera, ma in ogni caso non potrebbe definirsi realmente tale se non integrato in un sistema comunitario (la polis).

    La nostra società contemporanea invece pare interamente basata su di un regime di surrogati, dalla maturazione interiore che è sempre più una mera ricerca di perfezione apparente e/ o estetica (una sorta di degenerazione del concetto di "kalokagatia") all' aggregazione comunitaria che è (parrebbe essere) sempre più estesa (le meraviglie della tecnologia che permette di comunicare tutto a tutti in ogni luogo) ma sempre più evanescente (manca sempre più il cosa comunicare) ...

    Insomma, a me sembra che la nostra sia una società "in 2d", che, ad uno sguardo frettoloso, parrebbe anche organizzata con criterio, ma a cui in realtà manca completamente la terza dimensione, la profondità: è tutta una grottesca caricatura nella quale siamo intrappolati anche perchè ne abbiamo interiorizzato gli schemi, un surrogato insipido in ogni ambito, e ciò comporta disastrose conseguenze nella vita personale di tutti.

    Bellissimo questo passaggio:
    CITAZIONE
    Ciò che la società sembra essersi dimenticato letteralmente è che, oltre ai beni materiali, anche gli uomini si producono: e che il processo di produzione di un uomo libero - sia esso affidato alla famiglia, alle istituzioni pedagogiche o sociali - richiede un tempo infinito, apparentemente improduttivo.

    Interessantissimi poi i casi psicopatologici, che tra l' altro confermano anche la mia opinione sugli hippies.
     
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31 replies since 30/4/2012, 10:46   657 views
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