buddismo

come la vede un introverso

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  1. frodolives
     
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    Da sempre cerco una religione che mi possa fare accettare le profonde ingiustizie che vivo ogni giorno sulla mia pelle.
    Il buddismo risponde, se vogliamo, ad una mia visione della diversa nascita e condizione sociale come una profonda ingiustizia a tutti i livelli. Se siamo uguali, cosa non vera, perché abbiamo questo inizio di vita così differente, il quale obbliga le nostre anime a percorsi totalmente diversi?
    Il buddismo risponde dando a tutti un personalissimo karma individuale.
    Altra cosa nel rapporto con il nostro prossimo. La risposta del prossimo è sempre quanto esso ci vede uguali, e nel novantanove per cento dei casi l'altro ci risponde sulla base della simpatia che gli nutriamo, la quale è spesso del tutto inconscia a noi ed a lui, cioè si manifesta non per meriti ma per condizioni genetiche. E' una risposta chimica, un semplice prodotto del cervello.
    Se poi al di fuori di tutto questo esiste ancora la risposta cosciente, la scelta, ben venga.
    Il buddismo parla comunque di grandi anime, lo siamo tutti, ed afferma che per uscire dal ciclo delle rinascite, e dunque della sofferenza, deve cessare il desiderio.
    Non desiderare più nulla, e di conseguenza non aspettarsi nulla. Già domani mattina verrà l'alba, ritornerà forse un pò di energia nel corpo, e dovrebbe bastare. Ogni battito del cuore è un regalo. E perché volere altro? Di più? Per il lavoro che facciamo? Per quello che pensiamo di contare rispetto ad un altro?
    Voglio credere che esista qualche cosa. O almeno che non mi nuocia oltre...
    Spero che queste mie riflessioni servano a qualcuno, a me poco ma è l'unica alternativa per me, oggi.
     
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  2. Koenig4
     
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    Anche io sono molto influenzato dal Buddismo. Del Buddismo però prendo le parti psicologiche e filosofiche, cioè la parte razionale, mentre escludo quelle basate sul credo, cioè le parti non razionali. Credo che il Buddismo risponda bene alla mentalità Introversa che non accetta la non razionalità e sopratutto le contraddizioni. Si può obiettare che il karma il ciclo delle rinascite non è qualcosa di razionale. E' vero però che il Buddismo è molto flessibile, non esiste "o si è dentro o si è fuori". Il Buddismo ha i dogmi è vero ma di fatto è anti-dogmatica oltrechè antiproselita [ è corretto? :) ]. Tra tutte le forme di buddismo quella che mi attrae di più è la zen.
     
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  3. l.daniela
     
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    anch'io mi sono persa per un po' in tutte queste teorie e pratiche. però mi domandavo: Koenig dici che l'introverso nn accetta contraddizioni. io le amo, tutto ciò che è espressione contrastante io l'adoro. (probabilmente nn sono introversa anche se il test mi dà -16 l'ho fatto solo per gioco) anche se secondo me tra due cose contrapposte esiste una dialettica profonda un continuum a noi inconoscibile.

    che il buddhismo nn abbia dogmi, nn lo condivido perchè ho letto dei precetti

    i cinque precetti (pañca sīla), che si raccomanda a tutti i laici che si dicono buddhisti di seguire e che consistono nel:
    astenersi dall'uccidere;
    astenersi dal rubare;
    astenersi dall'erronea condotta sessuale;
    astenersi dall'uso di un eloquio volgare o offensivo;
    astenersi dall'alcool o dalle sostanze che alterano la lucidità mentale.

    Gli otto precetti (attha sīla), cui deve adeguare la propria condotta chiunque si trovi in un tempio e che si raccomanda a tutti i laici che si dicono buddhisti praticanti di seguire almeno nei giorni di osservanza (i giorni di uposatha, ossia i giorni di luna piena, luna nuova e i quarti di luna intermedi). Questi consistono in:
    astenersi dall'uccidere;
    astenersi dal rubare;
    astenersi da qualsiasi genere di condotta sessuale;
    astenersi dall'uso di un eloquio volgare o offensivo;
    astenersi dall'alcool o dalle sostanze che alterano la lucidità mentale;
    astenersi dal mangiare dopo mezzogiorno fino all'alba seguente;
    astenersi dal cantare, ballare e dalle attività ludiche in genere, dall'uso di gioielli, cosmetici o profumi;
    astenersi dal riposare o dormire su letti o giacigli alti o dalle dimensioni eccessive.


    I dieci precetti (dasa sīla), cui devono sempre adeguare la propria condotta tutti i novizi, le novizie, i monaci e le monache. Questi consistono nel:
    astenersi dall'uccidere;
    astenersi dal rubare;
    astenersi da qualsiasi genere di condotta sessuale;
    astenersi dall'uso di un eloquio volgare o offensivo;
    astenersi dall'alcool o dalle sostanze che alterano la lucidità mentale;
    astenersi dal mangiare dopo mezzogiorno fino all'alba seguente;
    astenersi dal cantare, ballare e dalle attività ludiche in genere;
    astenersi dall'uso di gioielli, cosmetici o profumi;
    astenersi dal riposare o dormire su letti o giacigli alti o dalle dimensioni eccessive;
    astenersi dall'accettare oro e argento (valori e denaro in genere).

    I precetti costituiscono una guida etica essenziale per l'aderenza del praticante ai principi morali buddhisti dell'ottuplice sentiero, che illustra le "tre pratiche dell'Etica", ripartite nelle tre classi di:

    Retta azione;
    Retta parola;
    Retti mezzi di sussistenza.

    Da ciascun precetto si ricaverebbe il rispetto per la vita e la compassione per tutti gli esseri, nonché la decisione di mantenere sani, nel corpo e nella mente, l'uomo, la comunità spirituale, la famiglia e la società.

    Ogni precetto include tre aspetti:

    la consapevolezza della sofferenza generata da un comportamento erroneo;
    la determinazione ad astenersi da quel comportamento;
    il voto di fare qualcosa in positivo come rimedio alla sofferenza:
    proteggere la vita;
    coltivare la generosità;
    avere una vita sessuale sana e coltivare rapporti sinceri;
    parlare con schiettezza e con gentilezza;
    mantenere la chiarezza mentale.
    Il fulcro dei precetti sono le risposte che il buddhismo da a domande come: "cos'è la sofferenza, come si genera e soprattutto, chi è che soffre?" O anche: "c'è veramente differenza fra la sofferenza degli altri e la propria sofferenza?" Secondo la dottrina buddhista, realizzare il vero significato dei precetti vuol dire riuscire a far luce sulla natura della sofferenza esistenziale

    noi abbiamo i 10 comandamenti biblici e i 7 peccati capitali e quelli veniali più i precetti della Chiesa:

    1. Parteciperai alla Messa la domenica e le altre feste comandate.

    2. Confesserai tutti tuoi peccati almeno una volta all'anno.

    3. Riceverai umilmente il tuo Creatore almeno a Pasqua.

    4. Santificherai le feste che ti sono comandate.

    "La domenica e le altre feste di precetto i fedeli [...] si astengano [...] da quei lavori e da quegli affari che impediscono di rendere culto a Dio e turbano la letizia propria del giorno del Signore o il dovuto riposo della mente e del corpo" (Codice di Diritto Canonico, can. 1247).

    5. Osserverai il digiuno prescritto e parimenti l'astinenza.

    "Si osservi l'astinenza dalle carni o da altro cibo, secondo le disposizioni della Conferenza Episcopale, in tutti e singoli i venerdì dell'anno, eccetto che coincidano con un giorno annoverato tra le solennità; l'astinenza e il digiuno, invece, il mercoledì delle Ceneri e il venerdì della Passione e Morte del Signore Nostro Gesù Cristo" (Ibid., can. 1251).

    Il digiuno consiste in un solo pasto regolare nel giorno con piccole porzioni di cibo al mattino e alla sera.

    I fedeli hanno anche l'obbligo di sovvenire alle necessità materiali della Chiesa, ciascuno in base alle proprie possibilità.


    Se la confessione ti costa un pó, recita una preghiera alla Vergine Maria. Il suo aiuto non ti mancherà. Ultimata la preparazione, entra nel confessionale con umiltà e raccoglimento, considerando che il sacerdote occupa il posto di Gesù Cristo nostro Signore, e accusa tutti i peccati con sincerità.



    a questo punto, se avessi dato retta, sempre me le fossi ricordate tutte, a tutte queste semplici regolette, sarei un'impasticcata folle!
    ho rischiato...addentrandomi nella meditazione di questi significati profondi.

    anzi ve ne sarei grata se voi riusciste a spiegarmi umanamente che collegamento ci sia anche con quelli buddhisti.

    mi spiegate anche, amici miei, se avete trovato una risposta, cosa significhi vivere senza desideri?

    che sarebbe più naturale e bio evitare di riempire strade con l'affanno dell'acquisto di un'automobile per ogni evenienza, magari lo condividerei anche anche ma parto dal principio che ognuno di noi è responsabile per sè stesso. che ogni ansia verso ogni desiderio effimero va consapevolizzta e canalizzata in qualcosa di più elevato, ok! ma mi concedo anche di trasgredire
    per quanto riguarda i desideri in quanto bisogni naturali grazie ai quali la vita acquista senso e valore, come la pensate rispetto al buddhismo. lo spiega questa dottrina? ditemelo voi. io mi sono incartata qui. dopodichè ho mandato carte all'aria un po' tutto ed ho comprato i saggi del doc, così fortuna vostra, mi avete conosciuta :D .
    marcello, nonostante io e te siamo due opposti di un qualcosa, ti sono vicina in ogni momento un po' difficile. :)

    un sorriso

    Edited by l.daniela - 12/3/2009, 11:45
     
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  4. Koenig4
     
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    Ho un profondo rispetto per tutte le religioni. Se fossi stato cristiano avrei seguito la religione alla lettera, diciamo in maniera perfezionista. Avrei seguito in maniera perfezionista anche il buddismo se fossi stato buddista ma non sono nemmeno buddista. Alla fine tra l'amore incondizionato e la compassione condizionata preferisco orientarmi per la seconda. Ma non sò per quale meccanismo alla fine non riesco a non essere più etico di tante persone religiose, cristiane o buddiste che siano. Che fortuna... sigh! :angry:
     
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  5. l.daniela
     
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    sai cosa, marcello? è un integralismo, secondo me, che fa sorgere invevitabilmente un'antitesi. cioè quando dico che mi concedo di trasgredire, nn è che vivo da selvatica e indisponente, voglio solo affermare la mia precarietà umana che queste regole, se vissute con ansia innaturale, mi tolgono.
    io, poi, ho il pallino dell'assenza dei desideri. buddha questa cosa me la deve proprio spiegare!

    nel frattempo vivo, coi miei limiti, con la mia ridicola imperfezione, con la mia vulnerabilità. sai qual'è il contrasto che più adoro, amico mio? che sono convinta di essere invincibile... :lol:

    fai valere la tua forza Marcello, alla distanza...tutto torna! quando sarà il momento, valuteranno anche come sei stato capace a parare i colpi!
    adesso stop, nn mi piace essere melense!
    un abbraccio

     
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  6. frodolives
     
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    CITAZIONE
    mi spiegate anche, amici miei, se avete trovato una risposta, cosa significhi vivere senza desideri?

    non dipendere dal realizzarsi o meno di una determinata cosa, soprattutto quando la sua realizzazione implica la volontà di una persona che è diversa da te... perché quando ho dovuto fare affidamento sulla volontà di un'altra persona l'ho sempre presa in quel posto, e sottolineo sempre

    CITAZIONE
    io, poi, ho il pallino dell'assenza dei desideri. buddha questa cosa me la deve proprio spiegare!

    ehm, io non sono Buddha, ma vedi sopra eheheh... credo che in ogni caso il buddismo sia tantissimo diverso dal cristianesimo, sopratutto per come è stato trasformato dal Vaticano... :P
    per questo il buddismo, soprattutto Zen come Koenig, mi piace tanto ma proprio...

    mi sento ingiustamente incompreso ma forse questo servirà all'esaurirsi del mio debito karmico
     
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  7. l.daniela
     
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    ho modificato il post precedente

    quindi, ok! eliminiamo la dipendenza, e ci siamo.
    come la mettiamo quindi col fisico ed umano bisogno di appartenenza?
    adesso mi rispondi che finchè sei uomo ne senti la necessità ma conclusa la ruota del karma ...
    si risale sulla giostra con un'altra anima definita intoccabile?
    leggo cose già lette
    CITAZIONE
    Degna di nota è la particolare concezione della vacuità, che si distacca totalmente dal nichilismo occidentale. Se per l'Occidente infatti esso si presenta per lo più come morte, cessazione, mancanza, privazione e negazione, il "mu", l'indicibile nulla dello Zen, è qualcosa di estremamente dinamico, stato germinale di tutte le cose, condizione di ogni possibilità, contenitore del tutto.

    si, poi?...

    CITAZIONE
    Obiettivo dello Zen è pervenire al satori, l'illuminazione che porta a un più alto livello di coscienza. Satori e vuoto sono due concetti complementari che si sostengono l'un l'altro, e proprio dalla concezione zen del vuoto è possibile capire la differenza tra il Nirvāṇa della tradizione buddista e il satori. Se il primo si presenta infatti fondamentalmente come rinuncia al mondo e distacco da esso, proprio come nell'ascetica noluntas di Arthur Schopenhauer, il satori si propone una partecipazione attiva e consapevole al mondo e non una fuga da esso.

    quindi riuscire ad essere consapevoli di tutta la complessità della mente umana. quindi avviare il processo di demistificazione, fino al suo raggiungimento totale per raggungere la REALTA'
    frodo hai fatto una domanda molto interessante al doc ieri, mi sai dire di che realtà parla lo zen? con l'ILLUMINAZIONE raggiungi la piena consapevolezza della realtà, no?
    altro punto: partendo dal presupposto che x me senza desideri è assurdo, ma l'assunto vuole che si accetti, quindi, il mondo così com'è, ho capito che a questi livelli è banale chiederlo ma: io cosa ci faccio qui?

    cioè: hai detto niente!....cosine facili per noi fragili sparuti e sperduti vulnerabili esseri umani! forse sui monti del tibet...ed ancora è triste anche per loro poverini con quello che stanno passando ora. ma qui a milano solo per prendere l'autobus... :lol:

    nn so ragazzi...
    io sono convinta che sia meglio vivere che credere e qui mi rifaccio addirittura a osho, figuriamoci...
    sono stata provocatoriamente sarcastica nel post precedente perchè tempo fa mi ero tuffata a pesce in queste filosofie
    lo sforzo di seguirle mi ha prodotto effetti tra il super io alienato ed io antitetico. STOP! ho detto stop!
    sto bene ora con tutti i miei pasticci si perchè alla fine (lo dico a voi che siete romani acquisiti come me) io sono una casinara...
    adesso vado a disegnare poi esco con questa bellissima giornata di sole poi ascolto l'mp3 poi vedo gente faccio cose...
    mi sono concessa di conoscermi senza obbiettivi
    forse che sono più zen oggi di ieri? chi può dirlo!
    no, no basta ragazzi credere no, ho già dato!
    un bacio

    Edited by l.daniela - 12/3/2009, 16:59
     
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  8. frodolives
     
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    CITAZIONE
    frodo hai fatto una domanda molto interessante al doc ieri, mi sai dire di che realtà parla lo zen? con l'ILLUMINAZIONE raggiungi la piena consapevolezza della realtà, no?
    altro punto: partendo dal presupposto che x me senza desideri è assurdo, ma l'assunto vuole che si accetti, quindi, il mondo così com'è, ho capito che a questi livelli è banale chiederlo ma: io cosa ci faccio qui?

    esiste intanto un'unica realtà? io credo di no.
    Osho l'ho letto anche io e trovo che sia una mente bellissima, leggere quello che le persone che lo hanno conosciuto hanno scritto della sua parola mi riempie il cuore, è un illuminato secondo me.
    non penso che sia soltanto vivere senza desideri.... penso che i desideri fanno parte di noi e va bene così
    io parlo di nascere soli e morire soli..
    triste ma vero
    parlo di gente più sola di altra gente perché diversa, parlo di me che essendo più diverso di altri mi ritrovo a non essere considerato per nulla dalla maggior parte delle persone, io sono diverso quindi vengo cancellato, rimosso, omesso.... sai che bello è accorgersi di essere invisibili?
    a me capita ogni giorno... risultato, cerco di non crucciarmi degli altri e so che se aspetto qualcosa da qualcuno questo qualcosa probabilmente non arriverà mai perché nessuno ha abbastanza coraggio da accettare un sentimento empatico verso di me
    a 38 anni non solo so di essere invisibile, ma ne ho la certezza
    ci sono gli introversi che piacciono, ed ancora più terribile ci sono introversi che non piacciono
    James Dean era un introverso che piaceva
    quelli che non piacevano la storia li ha dimenticati presto
    vorrei certe volte soltanto sapere come ottenere un pò di pace mentale dentro il mio cuore perché la mia solitudine, che alla fine diventa sterile, non produrre frutto, essere invisibile al genere umano, è frustrante
    ok, basta così per oggi, mi fa male pensarci.
     
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  9. Koenig4
     
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    alcuni raccontini presenti nel forum :

    Il filo di ragno

    La vera prosperità

    Una leggera alterazione

    La Galleria

    + questo post :

    Religione
     
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  10. l.daniela
     
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    vediamo se questo documento del doc. è più interessante di filosofie un po' troppo distanti dalla nostra fragile e complessa umanità:

    da nilalienum sull'immagine interna negativa

    Un'immagine interna negativa è quasi sempre reperibile nelle esperienze di disagio psichico, talora a livello cosciente, sempre a livello inconscio. Essa comporta due attribuzioni fondamentali - l'inadeguatezza e la cattiveria - che si combinano tra di loro nelle forme più varie, e ciascuna delle quali ha una connotazione e un'estensione dipendenti dai codici culturali che l'hanno prodotta.

    L'attribuzione d'inadeguatezza va dall'estremo del semplice disagio che si prova nel confrontarsi con gli altri - da cui il soggetto ricava una prova costante della sua inferiorità, immaturità, ingenuità, incompetenza comportamentale, che sita nel vissuto di sentirsi piccolo in un mondo di grandi - all'estremo opposto di un senso di totale disvalore associato ad una quasi intollerabile vergogna legata all'esposizione sociale, che spesso determina un drammatico disprezzo nei propri confronti.

    L'attribuzione della cattiveria va dall'estremo di una scarsa sensibilità nei confronti degli altri, che porta il soggetto a sentirsi nel suo intimo indifferente e cinico, all'estremo opposto dell'essere un mostro, un folle criminale, la reincarnazione del diavolo, ecc.

    E' evidente che l'attribuzione d'inadeguatezza implica un codice culturale di riferimento sociale, incentrato sulla spigliatezza relazionale e sull'efficienza perfezionistica, mentre l'attribuzione di cattiveria implica un codice culturale di riferimento morale, incentrato sull'altruismo e sull'innocenza.

    Perché queste attribuzioni possono essere ritenute ben poco realistiche o del tutto inattendibili? Perché i soggetti che si sentono inadeguati sono quasi tutti introversi che hanno eccellenti qualità, e i soggetti che si sentono cattivi non hanno mai fatto male a nessuno o ne hanno fatto, spesso inavvertitamente, in misura modesta rispetto ai "normali".

    L'immagine interna negativa si genera quasi sempre a livello inconscio, laddove i codici culturali interiorizzati sono rappresentati in forma più attiva. Essa può rimanere latente, evidenziandosi solo attraverso sintomi, vissuti e comportamenti il cui significato sfugge al soggetto, o affiorare a livello cosciente irretendola o corroborandosi se la coscienza riconosce la fondatezza di quegli stessi codici.

    Lo spettro dei sintomi, dei vissuti e dei comportamenti dipendenti da un'immagine interna negativa è estremamente vasto. Per esemplificarlo adeguatamente occorrerebbe percorrere tutto il campo della psicopatologia. Per dare credito al discorso, mi limiterò ad analizzare solo alcune circostanze ricorrenti e di grande significato.

    4.

    Il perfezionismo, determina costantemente un'immagine interna negativa. Esso, infatti, conscio o inconscio che sia, fa riferimento ad un modello irraggiungibile tale che, nel perseguirlo, il soggetto giunge a minimizzare o addirittura togliere valore al prodotto dei suoi sforzi, che può essere oggettivamente rilevante, e rimane costantemente preda dello scarto tra ciò che è e ciò che fa e ciò che dovrebbe essere. La conseguenza univoca del perfezionismo è un vissuto d'inadeguatezza, che può essere più o meno radicale, ma è sempre percepito come prova del proprio disvalore.

    E' importante tenere conto che il perfezionismo attecchisce sempre su personalità dotate di potenzialità, intellettive e/o emozionali, superiori alla media. Una volta interiorizzato, esso però promuove un'estrema tensione prestazionale e, nello stesso tempo, una frustrazione autovalutativa. Qualunque cosa il soggetto riesce a fare, infatti, viene ad essere minimizzata o giudicata negativamente in rapporto a ciò che egli avrebbe potuto o dovuto fare che supera di gran lunga la prestazione fornita.

    Il metro di misura perfezionistico induce il soggetto non a cogliere nel limite il confine del suo valore, bensì l'espressione del disvalore, vale a dire un handicap.

    Non c'è nulla di più sorprendente in analisi che ritrovarsi di fronte soggetti che, sul piano dello studio, del lavoro domestico o di quello professionale, hanno ricevuto e ricevono costantemente conferme sociali del loro valore e, nell'intimo, non riesco a credere ad esse, riconducendole al caso, alla fortuna o ad un errore di valutazione da parte degli altri. La conseguenza di quest'incapacità di dare credito al giudizio sociale e di integrarlo con l'immagine interna è il mantenersi di un vissuto interiore d'inadeguatezza, inferiorità, inadempienza, che può addirittura giungere a generare un senso di colpa riferito all'inganno perpetrato a carico degli altri.

    Gli effetti del perfezionismo sono diversi a seconda della sua caratterizzazione sociale, riferita allo status, o morale, riferita alla bontà, all'altruismo, ecc. Il perfezionista sociale vive costantemente nell'incubo di un fallimento che rivelerà agli occhi degli altri il suo disvalore, e smaschererà i trucchi che egli ha adottato per conseguire in passato successi immeritati. Il perfezionista morale vive egli stesso nell'incubo dello smascheramento, che fa riferimento però alla sua "vera"natura di essere egoista, cinico se non addirittura cattivo.

    Quest'attribuzione radicalmente negativa si spiega facilmente se si pensa che il sistema di valori morali adottato dal soggetto lo forza ad agire, sul piano dell'altruismo e della disponibilità, sforzi innaturali che vengono compensati, a livello inconscio, da fantasie opposizionistiche di segno opposto del tipo mandare tutti a quel paese, fregarsene degli altri, far peggio di loro, ecc. Queste fantasie vengono regolarmente imputate dal super-io che ricava da esse la prova di una negatività radicale.

    Occorre considerare infine un'altra circostanza, meno rara di quanto si possa pensare. Laddove le valenze opposizionistiche nei confronti del regime interiore coercitivo sono rilevanti, si realizza il dramma misconosciuto del perfezionismo inefficiente. Tale dramma è dovuto al fatto che, intraprendendo una qualunque attività, i soggetti si sentono immediatamente intrappolati da un senso del dovere implacabile, a cui reagiscono inattivandosi. Progettano insomma di fare mille cose, e di solito le avviano, ma non ne portano a termine neppure una. Nonostante le loro qualità possano essere eccellenti, il disvalore, in questo caso, sembra avere un fondamento oggettivo in riferimento alle prestazioni che sono modeste, parziali o inesistenti. In realtà esso è il prodotto di un perfezionismo sabotato, che produce uno spreco talora enorme di potenzialità.

    con amicizia.....
     
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  11. l.daniela
     
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    ed anche sempre da nilalienum

    BISOGNO INCONSCIO DI SOFFRIRE E FOBIA DELLA FELICITA' (1)>
    1.

    C'è un ampio spettro di vissuti, sintomi e comportamenti, facilmente reperibili nel corso dell'analisi, che non possono essere interpretati se si prescinde da un "bisogno" inconscio di soffrire. Tale bisogno solo rarissimamente viene recepito e convalidato a livello cosciente. Spesso esso, rimanendo del tutto estraneo alla coscienza, va inteso nei termini di una motivazione psicodinamica a tal punto potente da determinare sia direttamente, attraverso i sintomi, sia indirettamente, attraverso i comportamenti che il soggetto è spinto ad agire, un regime di vita mortificante, molto distante o comunque al di sotto di una soglia minima di felicità che, in teoria, egli potrebbe sormontare. Lo spettro del bisogno inconscio di soffrire è definito dalla distanza qualitativa che si dà tra il regime di vita da esso determinato e il regime possibile che il soggetto potrebbe realizzare se riuscisse a liberarsene. Si tratta di uno spettro estremamente ampio, che ad un estremo comporta una tendenza spiccata all'autolesionismo (anche fisico, fino all'autosoppressione) e all'estremo opposto una depressione lieve, apparentemente immotivata, riconducibile alla fobia della felicità.

    A questa complessa tematica un mio collega, amico e allievo, il dott. Nicola Ghezzani ha dedicato un libro (Volersi male, Angeli, Roma 2002) di grande interesse, che consiglio di leggere. Intrecciandosi con la tematica del senso di colpa, il bisogno inconscio di soffrire rappresenta un filo continuo in tutte le mie opere. In Star Male di Testa ad esso è dedicato il capitolo 17. Torno su questo problema, ripromettendomi di scrivere più articoli, perché ritengo che meriti, per la molteplicità e l'insidiosità dei modi in cui si esprime, un'attenzione costante.

    E' difficile affrontare la complessa tematica definita dal titolo senza alcune precisazioni preliminari. Nell'accezione comune, ricavata dalla psicoanalisi tradizionale, il bisogno inconscio di soffrire À identificato con il masochismo. Tale accezione è estremamente limitativa, riferendosi in prevalenza al masochismo sessuale.

    Coniato da Krafft-Ebing, il termine masochismo, derivato dal nome di un romanziere austriaco (Leopold von Sacher Masoch), i cui personaggi traevano piacere erotico dall'essere trattati crudelmente, designa semplicemente una pratica sessuale "perversa", tale cioè che: "l'individuo che ne è affetto, nei sentimenti e nei pensieri sessuali, è dominato dall'idea di essere completamente e incondizionatamente soggetto ai voleri di una persona del sesso opposto, di essere trattato da questa persona come da un padrone, di essere umiliato e maltrattatoÖ Cosa essenziale dal punto di vista della psicopatologia e comune a tutti i casi è la direzione dell'istinto sessuale verso la sfera di rappresentazioni della sottomissione ad un'altra persona e del maltrattamento da parte di quest'ultima".

    Freud, che mutua il termine da Krafft-Ebing, ne cambia alquanto il significato. Già nei Tre saggi sulla teoria della personalità, egli minimizza l'aspetto relazionale, per cui il masochista gode nel porsi nel ruolo dello "schiavo" rispetto ad un "padrone" da cui vuole essere maltrattato, riconducendo la perversione ad una vicissitudine puramente istintuale. Egli scrive: "La designazione di masochismo abbraccia tutti gli atteggiamenti passivi verso la vita sessuale e l'oggetto sessuale, e di questi l'estremo appare essere la congiunzione del soddisfacimento con il patimento di dolore fisico o psichico cagionato dall'oggetto sessuale. Il masochismo come perversione sembra allontanarsi dalla meta sessuale normale più del sadismo; ed è lecito innanzi tutto dubitare se esso si presenti in modo primario o piuttosto non sorga regolarmente per una trasformazione del sadismo. Spesso si può riconoscere che il masochismo è nient'altro che una prosecuzione del sadismo rivolto verso la propria persona, la quale fin dall'inizio tiene il luogo dell'oggetto sessuale." (Opere, vol 4, p. 471)

    In seguito all'ipotesi dell'istinto di morte, cui perviene nel 1920, Freud giunge però ad ammettere anche un masochismo primario. Egli, infatti, scrive in una nota all'opera citata del 1924: "Ulteriori riflessioni, che hanno potuto fondarsi su certe ipotesi riguardanti la struttura dell'apparato psichico e le specie di pulsioni in esso attive, hanno largamente modificato il mio giudizio sul masochismo. Sono stato indotto a riconoscere un masochismo primario - erogeno - dal quale si sviluppano due forme successive, il masochismo femminile e quello morale. Rivolgendo il sadismo inutilizzato nella vita verso la propria persona nasce un masochismo secondario, che si aggiunge a quello primario." (p. 471)

    Il masochismo morale cui Freud fa cenno è la tendenza inconscia di alcuni soggetti a produrre, sia a livello soggettivo che nell'interazione con il mondo, un regime di vita doloroso o infelice, corrispondente ad un bisogno inconscio di soffrire, mortificarsi, punirsi, espiare.

    Una differenza fondamentale tra il masochismo sessuale e quello morale è che, in conseguenza del primo, il soggetto ricerca attivamente un partner da cui farsi maltrattare, umiliare, tormentare, ecc., mentre il secondo non comporta alcun desiderio cosciente del genere. Di fatto, il primo si realizza sempre e comunque all'interno di una relazione interpersonale, il secondo invece si realizza nel rapporto con la vita e con il mondo nella sua totalità, compresa una relazione interpersonale nella quale però il soggetto s'immette con tutt'altro obiettivo.

    Ricondurre, come fa Freud, il masochismo morale alle vicissitudini dell'istinto di morte sembra, oltre che riduttivo, teoricamente insostenibile.

    Ci si può convincere di questo affrontando, in questo primo articolo, l'espressione forse più sottile del masochismo, che è anche la più facilmente interpretabile: la paura di stare bene o di "guarire" che affiora talvolta in analisi.

    2.

    Non c'è alcun paziente che "vuole" star male o non "vuole" guarire. Se si dà una motivazione primaria a livello d'inconscio, questa è identificabile con un bisogno di felicità ereditato dagli animali, che ha assunto negli uomini una valenza straordinaria. E' vero però che spesso un paziente non può guarire o riconoscere di stare meglio perché, albergando una dinamica masochistica, inconsciamente ha bisogno di continuare a star male. Tranne rarissimi casi di delirio di colpa, questo bisogno non À mai enunciato dal soggetto, che protesta in buona fede la sua volontà di guarire. Esso può essere ricavato però da una serie di indizi.

    Il primo è la tendenza a negare di stare meglio anche quando il miglioramento è evidente e casomai rilevato dai parenti e dagli amici. Può capitare addirittura che il soggetto si arrabbi quando si trova di fronte ad un giudizio del genere, sino al punto di "drammatizzare" la sofferenza, quasi rappresentandola agli occhi degli altri, o di avvertire un repentino peggioramento delle sue condizioni. Per conto suo, sia in analisi che nella vita quotidiana, non può usare la locuzione stare meglio senza avvertire un'oscura, indecifrabile paura.

    Il secondo indizio, singolare, è che la possibilità di stare meglio, che talora si realizza inconsapevolmente, dura finché il soggetto non se ne rende conto. Non appena ciò avviene, spesso con sorpresa, la conseguenza è repentinamente il ripresentarsi del malessere.

    Il terzo indizio è l'alternanza di periodi di relativo benessere e di malessere, la cui ciclicità permette al soggetto di operare delle previsioni certe sugli sviluppi futuri del suo stato d'animo. Il benessere è ritenuto una transitoria illusione rispetto al malessere che definisce lo stato proprio in cui il soggetto deve vivere.

    Non è difficile cogliere il significato inconscio di questi indizi se si tiene conto che la condanna a soffrire è inconsciamente accettata, quando non addirittura ritenuta giusta. In conseguenza di questo, lo stare bene viene a rappresentare una condizione impropria per il soggetto, né più né meno come sarebbe quella di un soggetto incarcerato che si ritrovasse all'aria aperta.

    Che le cose stiano così è infine comprovato da alcune convinzioni ideologiche che sono spesso espresse dai pazienti come se fossero leggi oggettive. La più frequente fa riferimento al fatto che è normale aspettarsi il male se uno sta bene. Questa convinzione non ha molto a che vedere con la previsione che può fare un qualunque soggetto che sta bene in ordine al fatto che il benessere non può durare all'infinito. Essa più semplicemente fa capo al principio per cui lo stare bene non può non essere compensato dal male, come se esso fosse una colpa da pagare.

    Su questo sfondo si definiscono poi due atteggiamenti inequivocabili.

    Il primo, che risulta chiaro via via che i sintomi si allentano, è la tendenza a mantenere un regime di vita comunque mortificato in rapporto alle possibilità oggettive. In pratica, un paziente sta meglio ma, senza apparente motivo (o talora dicendo semplicemente che non gli va) si astiene dall'uscire di casa per incombenze che non siano strettamente necessarie (lavoro, gestione domestica). Egli non va a cena fuori né al cinema né al teatro o a concerti musicali, rifiuta di partecipare alle feste, rinuncia alle vacanze, spesso si astiene anche dal coltivare interessi piacevoli (lettura, musica, ecc.) all'interno delle pareti domestiche.

    Il secondo atteggiamento non fa altro che fare affiorare a livello cosciente il motivo per cui il soggetto mantiene un regime di mortificazione, vale a dire la certezza assoluta che, se si concede degli svaghi, dei piaceri, delle vacanze, egli dovrà poi inesorabilmente pagarle stando male. Nessuno ovviamente è in grado di dare una giustificazione razionale a questa convinzione: alcuni soggetti la enunciano come un assioma che non richiede dimostrazione tanto è ovvio.

    Infine c'è da considerare la paura di stare bene che sopravviene verso la fine dell'analisi e che si esprime in tre modi. Il primo, più facilmente equivocabile, è la tendenza a perpetuare il rapporto con il terapeuta o ad assicurarsi la sua disponibilità permanente per il futuro.Questa tendenza è facilmente equivocabile perché, in alcuni casi, essa ha una comprensibilità umana immediata: corrisponde, in breve, al bisogno (negato nella nostra società in nome della concezione dell'individuo autosufficiente) di un "maestro" di vita o di un referente comunicativo privilegiato con cui parlare ogni tanto. In alcuni casi, però riesce del tutto evidente che quella tendenza fa capo al bisogno del soggetto di continuare a mantenersi nel ruolo del paziente, come se solo l'accettazione di questo ruolo potesse metterlo al riparo da una ricaduta. Questo significa, né più né meno, ritenere che la sofferenza sia stata superata, ma che essa si mantenga a livello potenziale.

    Il secondo modo consiste nell'accettare una sintomatologia minima, senza più impegnarsi a sormontarla. La circostanza più evidente, a riguardo, è legata a soggetti affetti da disturbi ossessivi e da rituali imponenti, che alla fine si arrendono ad eseguire quotidianamente un solo, piccolo rituale, e non hanno il coraggio di astenersene. Evidentemente, mantenendolo, essi rimangono nella categoria dei soggetti che soffrono, e questo li fa sentire protetti.

    Il terzo modo, sovrapponibile al secondo, riguarda i farmaci. Si tratti di ansiolitici o di antidepressivi, lo scalaggio procede talora senza alcuna difficoltà fino all'ultima dose, che può ridursi a poche gocce (talora addirittura due o tre). Assumendo questa dose (terapeuticamente inefficace e chimicamente praticamente inerte), il soggetto sperimenta un pieno benessere. Se tenta di sospenderla si scatena un malessere profondo. L'accettazione di questa dipendenza implica, inconsciamente, che la malattia, e dunque la sofferenza, ancora c'è.

    3.

    Mi sono limitato a descrivere gli indizi che, nel loro complesso, definiscono, nel corso di una terapia, l'attività di una dinamica masochistica. L'incidenza di tale dinamica nelle varie circostanze di vita sarà oggetto dei prossimi articoli.

    Che cosa significano nel complesso tali indizi? Per un aspetto, il significato non potrebbe essere più chiaro. Nella misura in cui lo stare male contrasta con il bisogno di felicità, esso è sempre rifiutato in nome del desiderio di soffrire di meno e di "guarire". A questo rifiuto cosciente corrisponde spesso però un bisogno assolutamente inconscio di soffrire, che, di fatto, viene intuitivamente accettato dal paziente che si comporta come se lo ritenesse, se non giusto, fatale. Su che cosa si fonda questo bisogno? Sostanzialmente su due logiche.

    La prima fa riferimento ad un senso rigoroso della giustizia tale per cui chi è colpevole di qualcosa non può sfuggire alla punizione. Non è tanto importante qui considerare di che cosa il soggetto si senta inconsciamente colpevole. Basta dire che di colpe reali in genere coloro che incappano in un disagio psichico ne hanno commesse o ne commettono in genere meno dei "normali". E' importante piuttosto soffermarsi sulla certezza della sanzione e della pena. Questo criterio, che pure governa la giustizia umana, è quotidianamente disatteso. Se l'automatismo cui fanno riferimento i pazienti esistesse realmente, si potrebbero eliminare le forze di polizia e chiudere i tribunali. A livello inconscio, perlomeno per quanto riguarda i soggetti affetti da un disagio psichico, quel criterio funziona come univoco e assoluto. Ciò si può spiegare solo facendo riferimento ad una necessità di ordine logico e etico nello stesso tempo, spesso, ma non sempre, influenzata dall'educazione religiosa. Non è neppure azzardato ipotizzare che tale necessità abbia rappresentato la matrice delle religioni monoteistiche, che l'accolgono univocamente.

    La seconda logica è anch'essa riconducibile al senso di giustizia, ma da un'angolatura particolare. Tale angolatura fa riferimento all'equa distribuzione del bene e del male tra i diversi soggetti che appartengono alla specie umana. La consapevolezza che non pochi di questi soffrono determina come conseguenza la percezione dello stare bene come un ingiusto privilegio che va pagato perché l'equità sia restaurata. In alcuni pazienti, questa logica sembra avere un carattere privato: essa, in breve, concerne il confronto tra la propria condizione e quella di un congiunto che soffre. Stare bene, da questo punto di vista, corrisponde ad un tradimento, all'affrancamento colpevole del principio della condivisione del dolore. In altri pazienti, la logica sembra avere un carattere universale, concernendo il confronto tra la propria condizione e quella di tanti altri esseri umani.

    Febbraio 2005



     
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  12. l.daniela
     
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    CITAZIONE
    penso che i desideri fanno parte di noi e va bene così
    io parlo di nascere soli e morire soli..

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    Il libero arbitrio, da questo punto di vista, consisterebbe nell’operare scelte entro un range vincolato dalla natura per un verso e dalla cultura (interiorizzata) per un altro. [...]Il problema diventa ancora più complesso se teniamo conto del fatto che una libera scelta implica la consapevolezza piena del significato delle possibilità alternative e, ancora più, delle motivazioni consce e inconsce che spingono un soggetto ad agire un comportamento piuttosto che un altro.
    Una consapevolezza del genere è oltremodo rara se è vero che, come ormai sostengono quasi tutti i neuroscienziati, le componenti emozionali delle motivazioni che sottendono le decisioni umane sono depositate in gran parte a livello inconscio. In conseguenza di questo, si sarebbe portati a dire che gli esseri umani sanno in genere quello che fanno ma molto raramente perché lo fanno. Sono insomma responsabili oggettivamente, ma non sempre soggettivamente.

    ti spiego, federico, il mio punto di vista.

    la chiesa ha fatto alla nostra cultura un bel lavaggio del cervello che ci troviamo impacchettato alla nascita, qui in italia.
    secondo me la moda commerciale di alternative orientali nn è da meno...tutte le persone "di tendenza" ora si sono abbracciate al buddhismo

    io preferisco seguire un filone più consono alla mia realtà tangibile e vivibile che comprende tutte queste teorie, ma le applica e me le spiega in modo più adatto a me. rimanendo molto meno modaiole e molto più pratiche. scusa ma ribadisco:

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    penso che i desideri fanno parte di noi e va bene così
    io parlo di nascere soli e morire soli..

    CITAZIONE
    Posto in questi termini, il libero arbitrio si riduce a ben poco. Questo poco peraltro è sommamente importante perché implica che se l’uomo è condizionato dalla natura, dalla cultura e dalla struttura del suo mondo interno motivazionale, egli però ha la capacità di valutare questi vincoli e, in una qualche misura, di accettarli, elaborarli o trascenderli.
    Il libero arbitrio, almeno quel poco che ci è concesso, non è una capacità immediatamente inerente la personalità umana, anche se a noi in genere piace pensarlo, ma una conquista lenta e graduale che implica una crescente consapevolezza su di sé e sullo stato di cose esistente nel mondo.

    ed insisto affinchè altri, come ho fatto io, nn caschino nella complicata rete delle soluzioni facili, rimanendo fermi.

    CITAZIONE
    triste ma vero
    parlo di gente più sola di altra gente perché diversa, parlo di me che essendo più diverso di altri mi ritrovo a non essere considerato per nulla dalla maggior parte delle persone, io sono diverso quindi vengo cancellato, rimosso, omesso.... sai che bello è accorgersi di essere invisibili?
    a me capita ogni giorno... risultato, cerco di non crucciarmi degli altri e so che se aspetto qualcosa da qualcuno questo qualcosa probabilmente non arriverà mai perché nessuno ha abbastanza coraggio da accettare un sentimento empatico verso di me

    CITAZIONE
    La teoria del cervello astratto fa riferimento al fatto che l’organizzazione neuronale corrisponde ad una programmazione genetica. Questa esiste di sicuro, ma è un fatto che, per realizzarsi in maniera tale da dare luogo ad un apparato mentale il cui funzionamento consente di riconoscere nel suo agente un essere umano, tale programmazione richiede l’interazione del cervello con un ambiente umano, vale a dire con un ambiente sociale e culturale. Non si sottolineerà mai abbastanza il fatto che l’umanizzazione del cervello, vale a dire la produzione di una mente, si fonda su potenzialità genetiche intrinseche che si fenotipizzano solo in virtù dell’interazione con l’Altro.

    Questa circostanza è particolarmente importante per quanto concerne la sfera dei comportamenti morali, quelli cioè che richiedono una valutazione in termini di doveri sociali e di diritti individuali e sono orientati a realizzare una mediazione e un’integrazione tra questi due aspetti nell’intento di evitare di danneggiare l’altro o se stesso.

    Nonostante si pensi che l’ambito dei comportamenti morali (nel cui ambito ricadono anche quelli che hanno un rilievo penale) sia fortemente influenzato dalla cultura, è fuor di dubbio che essi riconoscono una predisposizione naturale, geneticamente determinata, in virtù della quale il soggetto sente di avere diritti e, nello stesso tempo, attraverso il meccanismo dell’identificazione, sente che anche l’altro ne ha.

    Una delle scoperte più rilevanti della neurobiologia contemporanea, a cui dedicherò un articolo a parte, riguarda l’esistenza dei cosiddetti neuroni a specchio, vale a dire di catene neuronali la cui attivazione consente di ricostruire dentro di sé il modo di essere, il comportamento e, forse, le motivazioni che sottendono il comportamento dell’altro. E’ evidente che questa scoperta dà un fondamento psicobiologico ai meccanismi di imitazione e di identificazione con l’altro posti in luce dalla psicoanalisi.

    Sullo sfondo di questa doppia natura, geneticamente determinata, i moduli comportamentali di relazione tra io e altro si definiscono in conseguenza delle condizioni ambientali e della storia personale sulla base di memorie e di motivazioni che rimangono, in larga misura, al di fuori della coscienza soggettiva.

    L’importanza di questi aspetti in rapporto al problema del libero arbitrio non può essere minimizzata.

    Il tenere conto del retroterra inconscio che sottende i comportamenti umani comporta anch’esso un radicalismo complementare a quello neurodeterministico. Se infatti si accetta il fatto che l’io agisce sulla base di un’organizzazione motivazionale che, in gran parte, è al di fuori del suo controllo, si può giungere facilmente a pensare che, in senso proprio, egli è raramente responsabile di ciò che fa.

    Per non cadere in questa trappola, occorre distinguere la responsabilità oggettiva da quella soggettiva. La responsabilità oggettiva è riconducibile alle conseguenze sociali del comportamento che il soggetto agisce, e può essere ritenuta esistente laddove egli si renda conto di tali conseguenze. In pratica, se egli viola una norma o una legge, e si rende conto di stare agendo un comportamento infrattivo, egli si può ritenere responsabile.

    La responsabilità soggettiva fa invece capo non già alla consapevolezza di quello che il soggetto fa e delle sue conseguenze, bensì alla consapevolezza delle motivazioni che lo inducono ad agire quello piuttosto che un altro comportamento.

    Tenendo conto della complessità motivazionale dell’apparato mentale umano, la responsabilità soggettiva si configura come uno spettro, ad un estremo del quale si dà una consapevolezza assente o minima (che non esclude ovviamente una razionalizzazione o una giustificazione cosciente), mentre all’altro estremo si dà una consapevolezza elevata o piena.

    E’ evidente che, all’interno di questo spettro, il libero arbitrio concerne un ambito di comportamenti molto più ridotto rispetto a quello per il quale esso può essere invocato in termini di responsabilità oggettiva.

    A nessuno penso che sfugga l’importanza di questi concetti che, se fossero adottati culturalmente, comporterebbero il superamento del determinismo e dell’indeterminismo in nome del riferimento dialettico al rapporto tra l’io cosciente e il bagaglio motivazionale conscio e inconscio con cui convive e che amministra. Tale riferimento indurrebbe senz’altro una riformulazione del problema della responsabilità individuale, che esiste ma in termini più ridotti rispetto alla capacità di intendere e di volere tradizionalmente definita. Al di là di questa riformulazione, poi, il problema più importante sarebbe quello di aumentare il grado di libertà reale delle persone fornendo loro strumenti per ampliare gli orizzonti della coscienza, in maniera tale che essi siano più possibile consapevoli del patrimonio motivazionale soggettivo.

    Questa dotazione, peraltro, non basterebbe se non si associasse ad una programmazione socioculturale che, anziché negare o enfatizzare la libertà umana, la riconoscesse come un requisito dell’apparato mentale sempre precario, a rischio e bisognoso di essere tutelato e corroborato sia dai singoli individui che dalla collettività.

    a volte spinte motivazionali troppo elevate ci bloccano
    credo che pensare di accettare che possiamo agire come se l'Altro nn ci fosse sia perchè nn ci piace come fà con noi, sia perchè nn siamo degni di appartenere, posso capire che faccia anche parte di un bagaglio di esperienze vissuto. ma perchè nn arrendersi a credere che davvero gli esseri umani sono tutti indistintamente fragili ed è solo una corazza difensiva tua e loro quella che ti tiene lontano facendoti sentire imo o super a tratti alternati? perchè nn provare almeno a credere che a piccoli e faticosissimi passi ce la possiamo fare?
    perchè nn eliminare dalla nostra immagine superegoica di essere buoni come gesù o saggi come buddha, che creano un io antitetico distante da noi quanto quei personaggi, inserendo noi a metà tra queste enormi distanze e squartati da un energico tiro di cavalli in due direzioni antitetiche? perchè nn ci infagocitiamo un bel po' di libri di anepeta che parlano di noi e nn di miti ideali?
    perchè secondo te io sono qui a dirti che ho già dato e per carità lasciami perdere con queste scemenze alla moda?
    perchè dopo aver letto Star Male di Testa oppure La politica del Super-io che già da soli ILLUMINANO nn facciamo un po' di domande al dottore e portiamo avanti la nostra battaglia contro la comune chiusura mentale delle piccole società isolate? e anche delle grandi metropoli distratte?
    io penso che noi tutti valiamo più di quanto crediamo. iniziare a crederci è il primo passo, eliminare chi pretende troppo da noi è il secondo, ed un po' di sana ed umana curiosità sul nostro funzionamento naturale, nn guasta...
    smetto di ammorbarvi per un po'...magari vado a parlare di figli :lol:
    un grosso bacio

    Edited by l.daniela - 13/3/2009, 10:16
     
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  13. imperia69
     
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    io parlo di nascere soli e morire soli..
    triste ma vero
    parlo di gente più sola di altra gente perché diversa, parlo di me che essendo più diverso di altri mi ritrovo a non essere considerato per nulla dalla maggior parte delle persone, io sono diverso quindi vengo cancellato, rimosso, omesso.... sai che bello è accorgersi di essere invisibili?
    a me capita ogni giorno... risultato, cerco di non crucciarmi degli altri e so che se aspetto qualcosa da qualcuno questo qualcosa probabilmente non arriverà mai perché nessuno ha abbastanza coraggio da accettare un sentimento empatico verso di me
    a 38 anni non solo so di essere invisibile, ma ne ho la certezza

    Scusatemi se insisto su questo tema, ma tu provi un sentimento empatico verso queste persone da cui ti senti ignorato?
    Con l'invisibilità un po' dobbiamo farci i conti, il nostro parlare sottovoce è al di sotto del livello di percezione di molti; come si fa ad essere ascoltati non lo so, ma è una realtà che dobbiamo tenere spesso a mente.
    Per me le cose un po' sono cambiate quando mi sono resa conto che in alcuni casi non essere considerata era una liberazione, non un problema: anni fa in ufficio dei colleghi hanno invitato al loro matrimonio tutta la direzione tranne 3-4 persone, me compresa. Alcune di queste si sono arrabbiate e l'hanno vissuta come un'ingiustizia. Dal canto mio, chiedendomi se ne avevo veramente voglia, mi sono resa conto che non invitandomi mi avevano fatto un favore e mi avevano risparmiato anche l'imbarazzo di trovare una scusa per non andare!
    Ovviamente, non è sempre così, ma ogni tanto dovremmo chiederci che cosa è che vogliamo veramente.
     
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  14. frodolives
     
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    Grazie per le bellissime risposte. Io sono convinto che siamo diversi, e che nella diversità vi è un preciso range, da poco diversi a diversissimi. E' un dato di fatto che i "simili tra loro" mal digeriscano i diversi, questa diversità può esser culturale, fisiologica, naturale, psicologica... penso allo sciamanesimo, molto più umana come concezione religiosa delle religioni istituzionalizzate che sono divenute pret a porter soprattutto per i simili tra loro..pensate invece al druido che si riconosce nella cosiddetta pazzia di parlare con le piante e gli animali.... che viene condotto in un luogo appartato perché il suo stare solo significa che le fate, che gli spiriti gli stanno parlando, che lo vogliono tutto per loro, che lui è stato prescelto dall'Invisibile... a me piace pensare questo di me.
    Piace pensare che sono solo perché sono stato scelto, che ho certi pensieri che mi isolano perché sono stato scelto, ed io non devo diventare come gli altri ma proseguire in una direzione che è solo mia, e che sarà difficile e terribile ma uno sciamano deve affrontare le tre ferite e poi, superate, se sopravvive, egli sarà un druido capace di dare le risposte dell'invisibile ai "simili tra loro"

    Una prova è il fatto di essere solo a trentotto anni, non aver quasi mai avuto una compagna. Sono come impossibilitate a rapportarsi a me, perché io sono diverso.
    Sono convinto che questo voler omologare della nostra società moderna sia uno sbaglio, trovo che per esempio lo sciamanesimo sia qualcosa di bellissimo e che gli antichi su certe cose della vita (e della morte) erano molto più saggi di noi cosiddetti "moderni"
     
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  15. l.daniela
     
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    anch'io ho letto don juan di castaneda e la ricerca "dell'aldilà" del mistero di vita e morte ecc. attraverso tutta la simbologia ad essa correlata. è una fantasia bellissima rilassante, scarica tensioni promuovendo una speranza che qui tra l'oggi ed il domani nel quotidiano per me era difficile trovare. ho scansito il mistero millimetro per millimetro e l'ho scandito attimo per attimo.
    la morte, un passaggio di crescita
    gli spiriti, i pensieri le emozioni i sentimenti
    parlare con le piante e le fate, il dialogo interiore con la parte amorevole di sè stessi legata ai sentimenti emozioni ecc.
    parlare coi folletti dispettosi fino a mostri malvagi parlare con la parte meno amorevole di sè legata a sentimenti emozioni
    essere prescelti amare sè stessi in profondità
    il Nemico, l'Altro da conoscere comprendere combattere rifiutare a seconda della propria conoscenza dell'essere umano. sono sempre parti interiori di noi dinamiche ed attive.
    sai, per dire, quanti spiriti malvagi (pensieri punitivi) da "combattere" (consapevolizzare, demistificare) nella mia testa ed in quella della gente? sai quante fate? (pesieri amichevoli, forza coraggio interiori) sai quante terre desolate, buie, cupe? (sentimenti di solitudine) sai quanti cimiteri? (desolazione tristezza riflessione sui propri limiti)
    sono autodidatta, ed in questo momento che sto parlando di me in questo modo anche nuda e vulnerabile. ed ho un po'paura e sono anche un po' commossa.
    chiedo aiuto a chi ne sa più di me, ma quando parlo con qualcuno, sono bilingue, parlo come tutti ed in testa ho tutta la mia fantasia. per questo non mi annoio mai. per questo la solitudine mi sta lontana. per questo faccio fatica a tener lontana la gente. e sono introversa! perchè preferisco stare con la mia fantasia. stare in mezzo alla confusione mi affatica troppo!
    dentro me c'è tutto questo
    anche nell'Altro da me c'è un grande mistero che mi piace conoscere
    ogni volta che mi parla una persona mi si apre un mondo fantastico, anche se è un salumiere, anche un carpentiere, anche uno scienziato. anche chi ha poca fantasia e mi parla solo di conti bancari, mi dice che nel rapporto con l'Altro calcola che la vita per lui è un dare per avere, che investe e mi cerca sperando solo nei profitti, che nn si "spreca" mai...contento lui!
    io mi fermo qui
    preferisco conoscere l'essere umano e leggere attraverso lui tutta la simbologia correlata. giusto. sono una diversa tra diversi.
    una con tanta a volte troppa fantasia scaturita dalla propria storia e dalla propria introversione, che ha dovuto imparare ad utilizzarla per trovare un contatto col mondo. per nn uscire di testa.
    grazie Doc. grazie di cuore.
    un abbraccio a tutti

    Edited by l.daniela - 13/3/2009, 15:14
     
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14 replies since 12/3/2009, 00:29   292 views
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